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- ROMA -

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Lucio Musto
Lucio Musto
Viandante Ad Honorem
Viandante Ad Honorem
Roma


Oggi, amica mia, voglio parlarti di Roma, la tua città, e raccontarti perché il ricordo delle sue piazze, le strade, le persone siano per me immagine sempre bellissima.

Mi sono svegliato con questa voglia stamattina, raccontarti di Roma, e ad un tempo con l’interrogativo: “ma davvero, perché amo Roma?... in fondo non è che una città, bellissima quanto vuoi, eterna, capitale… ma sempre solo una città!”. E vale aggiungere nemmeno perfetta ma con i suoi problemi: traffico, inquinamento, rumore… ed altro.

Mi sono risposto senza esitazione, ed ecco subito una collana infinita di motivazioni, grani tutti diversi eppure attaccati allo steso filo vivo, il rosario della mia vita.

Roma è l’amore, e le sue strade e le sue piazze sono da sempre, per me, palestra privilegiata per i momenti che contano, i lampi di gioia della vita.

Non ci ho mai abitato, né a Roma, né nei dintorni, ma ci sono stato innumerevoli volte, per i più vari motivi.
Per quanto ricordi, sempre cose importanti, sempre con soddisfazione, sempre con successo.
Per farti partecipe in qualche modo di questi momenti si, amica mia, ora te ne accennerò qualcuno, così come mi viene… e tu mi perdonerai gli strafalcioni “da emozione”.

La prima macchina.
L’automobile non l’avevamo mai avuta prima, in famiglia. Ora l’avevamo comprata, grazie al mio nuovo lavoro, che avrebbe permesso di pagarla.
Ed il primo viaggio, la prima meta era naturalmente Roma.
Eravamo usciti di città solo per andare a Pompei, e far benedire l’«Ondine» nuova e luccicante. Volere di mamma, ma un po’ anche devozione mia.

A Roma invece ci andavo da solo. Andavo a trovare la fidanzatina di allora, che non sapeva ancora “che ora avevamo la macchina!”. Appuntamento a piazza S.Giovanni, invece che come di solito, a Termini. Misterioso, le avevo detto che per “affari” mi sarebbe stato più comodo vederla li.
In effetti solo perché a S.Giovanni ci arrivavo direttamente dall’Appia: l’autostrada non c’era ancora, allora.
Feci tardi, infinitamente tardi; non ho mai più fatto tanto tardi nella mia vita.
Non sapevo come calcolare i tempi di percorrenza in auto e sballai del tutto le previsioni.
Arrivai sfinito nel corpo e disperato nel cuore, assolutamente certo di aver perduto per sempre il mio grande amore (quello che poi sarebbe stato il più grande amore di sempre, ma questa è un’altra storia), ed odiai la macchina nuova che non volava, la gente in strada che non aveva fretta, la strada che non si accorciava, per farmi arrivare prima.
Senza speranza ormai, ecco S. Giovanni in Laterano ormai del tutto spenta.
Ma lei è lì nel suo abituccio bianco, sorridente, ad accogliere nelle sue braccia le mie lacrime affrante: “di che ti preoccupi?... non sapevi che io ero comunque con te e comunque ti avrei aspettato?”.
La Basilica era un turbinio di lucine scintillanti. Non l’ho mai vista più bella.

Fontana di Trevi era il nostro appuntamento, per il cappuccino (a Roma il caffè è imbevibile) prima del “lavoro”.
Quelli erano i tempi dell’opulenza, quando mi sentivo ricco e m’importava.
Coi “colleghi” (non più i “compagni” o gli “amici”, ora avevo i “colleghi”)… ci vedevamo al bar, prima di “andare in IBM” per il nostro prestigioso, misterioso, appassionante lavoro.
In realtà andavamo solo a seguire un corso di preparazione professionale, nella sede provvisoria dell’IBM che allora era lì vicino.
Ma eravamo bancari “in missione” ed ogni giorno, in aggiunta allo stipendio già lauto, “pigliavamo” undicimiladuecento lire. Per fare le giuste proporzioni, ricordo che mia madre, preside del Tecnico, guadagnava sessantatremila lire al mese.
Seicento lire di ristorante, altrettante di alloggio, ed il resto era gruzzolo che s’impinguava.
Davvero mi sentivo un “Agnelli”!... anche se stavo ancora in una pensioncina a piazza Accademia. Solo molto dopo, lo “Shangri Là” sarebbe divenuto il mio hotel abituale.
Roma era davvero la mia realtà sognata.

Vennero poi i tempi dell’EUR… I primi tempi, e quelli di dopo.

La IBM aveva la nuova sede, un palazzo avveniristico tutto acciaio bronzato e vetrate d’ambra, e noi eravamo “i Clienti”.
La IBM imponeva lo stile americano per le aziende di alto profilo. Giacca e cravatta sempre, rigorosamente ci si dava del “lei”, assoluta puntualià, coffee break offerto a metà mattina, moduli di sondaggio per valutare il gradimento e la validità delle iniziative, personale tutto preparato al top, posacenere in cristallo, moquette ed aria condizionata in tutto l’edificio, anche nei corridoi e per le scale… Uno splendore!.
Oddio, non è che non si lavorasse!... Anzi, l’impegno era sempre notevole, ed occorrevano anche delle ore, in albergo, per rifinire dei problemi o cercare di approfondire questioni.
Ma eravamo tutti entusiasti del nostro lavoro speciale e, come ci sfottevono, ce lo portavamo a letto volentieri.
Nel tempo libero… Roma by night!... Ci facevamo chiamare i taxi per andare in centro, e facevamo i soliti giri, per goderci l’atmosfera della Capitale, il profumo dei nostri anni verdi, il futuro che ci prometteva chissacché.
A volte insieme, spesso ognuno per se, secondo i gusti personali, andavamo bighellonando.
Via Veneto e via Margutta, piazza di Spagna ed i vicoletti più nascosti erano sempre “posti” nostri, nostre conquiste.
Da soli, con le nostre mogli o fidanzate, con amiche occasionali, giravamo Roma, le sue taverne, i suoi locali di svago, i suoi monumenti, le sue chiese.
Era sempre “tutto nostro” Roma ci sorrideva sempre, complice e sorniona.

A Roma ci portai una volta i miei suoceri, quando non avevano ancora conquistato i soprannomi dolcissimi di nonnopapà e mammina, con la scusa di festeggiare insieme una macchina nuova, e fu una gita bellissima, perché ci volevamo un mondo di bene, ed indimenticabile per una sbronza epica che ci pigliammo noi maschietti.
E’ stata l’unica volta nella mia vita che ho visto il nonnopapà barcollante; quando a me partii del tutto, ed a casa dovette riportarci mia moglie allora sposa recente, che “la macchina nuova” non l’aveva ancora mai guidata.

A Roma ci ho vinto la scommessa lavorativa più ardua della mia vita, quando riuscii a fare in poche ore un lavoro di giorni, per di più operando in condizioni difficili.
Quello fu il giorno anche di altre particolarità.
L’unica volta che ho cenato da Mario al Testaccio, l’unica volta (ahimé) che allo “Shangri Là” mi hanno dato la “suite” perché le stanze normali erano tutte occupate, ma senza aggravio di sovrapprezzo, in quanto considerato cliente “primario”.
Purtroppo ci dormii da solo e solo per tre ore. Alle quattro del mattino dovetti ripartire.
Quella è la volta infine che fra rimborsi spese, indennità di missione, encomio eccetera ho guadagnato per lavoro di più nella mia vita in un giorno solo.
Mi vergogno a dire quanto ma…, grazie Roma!

A Roma ho avuto anche un’amante in cui ho creduto.
Non è durato molto, lo sapevamo entrambi che era una cosa senza radici, ma era un’infatuazione bella così.
Infatti la ricordo ancora con tenerezza.
Un palloncino fresco e leggero che ha palpitato un po’ fra antichità severe e lecci ombrosi e poi è scomparso nel cielo notturno lasciando nel cuore un ricordo dolce.

A Roma ci sono stato bene soprattutto con mia moglie, quelle rare volte che è riuscita a liberarsi dei suoi molti impegni ed accompagnarmi.
Strani giorni, quelli. Lei di giorno in visita culturale alla città, ché io “felicemente” impegnato nel mio amato lavoro; ed alla sera, come fidanzati, in giro per ristoranti ed angoletti caratteristici.
Solo raramente in via Condotti per spese.
A me il pellegrinaggio per vetrine non piace affatto, e quelle volte lei era anche disposta ad accontentarmi.
Una volta, il una taverna, prese una cotta per il pianista.
Non mi ingelosii nemmeno, ma ne abbiamo sorriso per anni. Roma è particolare.

A Roma ci sono venuto per il FamilyFest del 1981 (o era l’82?...).
Un maxiincontro davvero entusiasmante. Da un po’ di tempo avevo conosciuto un volto nuovo di Dio ed ancora andavo scoprendolo nel mondo, ed ero traboccante di entusiasmo nel darmi agli altri, ma soprattutto di travolgerli e trascinarli in quella mia nuova frenesia, di “passare” il messaggio.
Avevo un gruppo, la prima ed unica volta in vita mia ad avere nel “Movimento” una responsabilità così numerosa; cinquantadue persone, un pullman intero di neofiti da guidare, assistere, consolare calmare… e magari indottrinare (pensavo io, anche se in realtà non mi fu mai chiesto).
Me ne successero di tutte, dall’autista che non sentì la sveglia al mattino al temporale primaverile mandato a scoraggiare la gente (di cinque diversi paesi!) a partecipare al viaggio, al passeggero che si sentì male per strada.
Ma nulla ci avrebbe fermato: mia moglie ed io eravamo pronti, nel nostro entusiasmo, a superare qualsiasi ostacolo.
Trafelati e stanchi entrammo nel palazzetto dello sport all’EUR, con le cinquantadue persone a noi affidate festanti, giusto un minuto prima che iniziasse il convegno.
Ed io sentii che avevo fatto la mia piccola parte bene, come tutti quegli altri diecimila scalmanati presenti che sprizzavano intorno amore ed entusiasmo. Come me, ed i miei.
Probabilmente sarebbe stato lo stesso dovunque, quelli erano i giorni del fervore.
Ma a me accadde a Roma.

A Roma ho incontrato la droga.
Ricordo esattamente ogni dettaglio. Era una notte, tardi, e camminavo per via del Corso.
Ero giù, in uno di quei momenti di profondo sconforto che hanno sottolineato tutta la mia vita di crepuscolare.
Lui era lì, e mi veniva incontro; distinto, mi parve, e calmo.
Parlò nitidamente, con un timbro che ricordo bene, secco, arido: «Inutile fare giri di parole – disse – sono un drogato e cerco i soldi per la mia dose. Mi vuole dare qualcosa?».
Mi dette del Lei, ricordo che la cosa mi stupì.
Non mi era mai capitato di parlare con qualcuno che ammettesse di essere un drogato, e non ero preparato al discorso. Ma subito mi dissi che lui non voleva chiacchiere, ma risolvere il suo problema di quella sera.
“Seppi”, e lo seppi chiaramente, che era quello il mio momento di testimoniare. Presi il portamonete e glielo porsi. Non mi sentivo per nulla minacciato; era una partita a scacchi, ed avevo fatto la mia mossa.
Lui lo aprì con calma, e guardò attentamente:
«Posso… posso prendere cinquemila lire?...». Al mio assenso le prese, e mi restituì il borsellino di pelle. Dentro, avevo duecentomila lire…, forse di più. Roma, è maestra.
Una chiesa, forse San Marcello, stranamente per l’ora, era aperta. Andai dentro a recitare un padrenostro per quel mio angelo drogato.

Non proprio Roma, ma lì vicino, c’è Rocca di Papa.
Potrei raccontare molte cose su me e Rocca di Papa e Castelgandolfo, ma uscirei fuori tema.
Il tema infatti è “Roma”. Ma questa cosa, amica mia, te la voglio raccontare adesso, e sono certo che mi perdonerai.
Ro (mia moglie si chiama MariaRosaria) era a Rocca di Papa per un congresso di approfondimento spirituale. Era lì da alcuni giorni ed avrebbe dovuto rientrare quella sera, sul tardi. Ma a mezzogiorno si ha notizia di uno “sciopero selvaggio” delle ferrovie.
Mi telefona quindi in ufficio per avvertirmi del disguido: «… comunque non preoccuparti, ci sono qui tanti amici, in qualche modo ci organizzeremo!...»
Ora, devi sapere che non era nostra abitudine ricevere telefonate private in ufficio, se non in caso di emergenza, per cui i colleghi si preoccuparono di cosa fosse successo.
Qualche minuto di consultazione e poi il regalo per me: «Stasera a Ro l’andiamo a prendere noi, tutti assieme!... E la portiamo alla “Foresta”, che chissà che schifezze avrà mangiato fra una preghiera ed un’altra!».
La “Foresta”, come sai è un ristorante dei colli albani specializzato in funghi e maialino alla brace, ed i miei colleghi, avrai capito, erano affettuosi e irriverenti.
Ci andammo tutti e venti, dopo l’ufficio, a Rocca di Papa, e fu una grande festa. I miei ragazzi, in ufficio, mi volevano davvero bene!... e credo me ne vogliano ancora!

Roma è quella dove sta la Banca d’Italia.
Periodici, noiosissimi, formali incontri dirigenziali per discutere senza obiettivo alcuno di milleuno problemi economici dell’Italia.
Tutto spettacolo, ché poi nelle stanze dei bottoni c’erano altri a fare il buono ed il cattivo tempo straimpipandosene dei risultati dei nostri convegni di studi. Soldi buttati solo per la facciata.
Ma i romani sono romani, e non lo si può negare. Ed a Roma, si vive nello stile dei romani.
Nelle circa cinque-sei ore di convegno ci si sbizzarriva in chiacchiere e proposte seriose quanto inutili… ma non un secondo di più! Appena la seduta era “levata”, per il break o il pranzo o il fine-giornata si ritornava subito uomini, romani… cioè gente stupenda!
Non come nelle riunioni del nord, dove di lavoro si continua a parlare a cena (chiamiamole cene…), e dopo, ed a colazione… e sempre!
Andare a Roma è una gioia, anche se devi andare in Banca d’Italia!.

Perché a Roma, non so se lo sai, ci siete voi Romani!...


Lucio Musto 22 luglio 2005 parole 2126

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Massimo Vaj
Massimo Vaj
Viandante Storico
Viandante Storico
Roma mi piace, ma io non piaccio ai romani, né la maggior parte di loro piace a me. È un mistero ancora senza spiegazione e nemmeno il mio migliore amico, che è romano, se lo spiega e, anzi, quando gli porto la sua razione di pane e acqua giù in cantina mi ringrazia sempre di cuore...

Mi ha colpito il tuo incontro col ragazzo drogato, e mi ha risvegliato ricordi mai assopiti. A Goa, regione ex colonia portoghese sul tropico del cancro, mi pare, dell'India, ho soggiornato, ormai quasi quaranta anni fa, per pochi mesi senza nemmeno le tasche per contenere una sola rupia. Ma un ragazzo italiano, lì per schivare il servizio militare, tornato in Italia per seri problemi famigliari, mi lasciò la casa che aveva affittato per alcuni mesi. Era una villa di fattura portoghese, grande e col giardino contornato da un muretto bianco che non nascondeva l'oceano. Io la aprii a tutti gli scoppiati di Anjuna che poterono dormirci la notte. Occasionalmente recuperavo, insieme ad alcuni di loro, gente in coma sulla spiaggia, e la sdraiavo nella casa sperando che non morisse. In quegli anni, ad Anjuna (nome della spiaggia lì fuori) la corrente elettrica era un mito che in molti ancora non avevano visto e il tempo si muoveva come se avesse deciso che non l'avrebbero conosciuto mai. Tra gli scoppiati che ospitavo ce n'era uno, di nome Roberto, morfinomane. A quel tempo in India l'eroina non c'era ed era la morfina la droga ricercata da un certo numero di europei che stavano lì perché era venduta in farmacia a un dollaro al grammo. Roberto aveva dei princìpi, cosa singolare per un morfinomane. Se gli chiedevano la "rebonza", come la chiamava lui, e gliela chiedevano perché altrimenti stavano inscimmiati nella più crudele delle sofferenze, gliela regalava. Dopo due settimane Roberto urlava, di giorno e di notte, negli spasmi che si era guadagnato con la sua generosità.
L'ho incontrato due anni dopo, nel quartiere di Brera, a Milano, tanto stravolto da non riconoscermi, ma il ricordo che ho di Roberto non è quello che mi ha lasciato quell'ultima volta.

P.S: mi è venuto in mente che a Goa pesavo 47 chili su 1,75 cm, mentre a Milano, due anni dopo, stavo sulla normalità dei sessantacinque... forse Roberto non era poi così stravolto quando non mi ha riconosciuto... pietra

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