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Si, ci fu una volta
Si ci fu una volta… ma ero tanto ragazzino che manco me lo ricordo quanto.
I calzoni lunghi li portavo certamente, me lo ricordo, ma non so se per merito dell’età o del freddo pungente di quello sparuto, splendido paesetto svizzero.
Eravamo in viaggio premio, ed erano quelli i tempi che il Ministero dava dei soldi alle scuole affinché a inizio anno (perché all’inizio?... perché poi non ci si doveva più distrarre, bisognava sgobbare!) portassero gli alunni più meritevoli (dell’anno prima) a fare una vacanza lontano da casa, in un paese o una nazione diversa, a giudizio del signor Preside, per dirozzare i discoli e far loro conoscere altre genti, altre mentalità.
Il Ministero elargiva i fondi (pochini, credo), ed il Preside li utilizzava tutti, fino all’ultima lira, a beneficio dei ragazzi, perché gli accompagnatori, i professori che lo chiedevano, usufruivano del biglietto omaggio offerto dalle ferrovie, ma tutte le altre spese, vitto, alloggio ed extra vari, se li pagavano di tasca propria.
E così mi capito di essere in viaggio premio in un paesino svizzero.
Unica volta nella vita che m’è riuscito di avere un premio.
Ed ero il campione di ping-pong.
Gli Svizzeri di quel paesino, allora (non so se ancora oggi) giocavano il ping-pong su un tavolo di truciolato morbidissimo, con una particolare palla di gomma traforata grande come una pallina da golf o forse anche più.
Facile intuire che ne uscisse un palleggio lentissimo, per i nostri standard, ed estremamente tecnico.
Io avevo con me la mia racchetta duble-face studiata per i piani laccati duri regolamentari e le velocissime palline di celluloide… troppo evidente che avessi vita facile, considerando che io a ping-pong ci sapevo giocare abbastanza bene e certo non mancavo di fiato e forza scattante, com’è invece oggi che arranco anche a fare una rampa di scale!.
Ero dunque il campione sul campo, pronto ad accettare qualunque sfida… e naturalmente ero innamorato.
Mi innamorai della barista-cameriera-signorina tuttofare figlia del proprietario dello chalet che ci ospitava sin dalla prima sera, quella degli spaghetti, come ho già raccontato un’altra volta, e la mia passione crebbe tumultuosamente per tutta la settimana che trascorremmo in Svizzera… ma ero fra i più giovani dei galletti italiani sbarcati fra quelle montagne, e avevo nessuna speranza di salire di rango fino alla conquista di quella splendida femmina alfa!
Ed allora mi sfogavo nel ping-pong facendo vittime illustri; tutti i bulletti del paese mi sfidarono, e ci lasciarono le penne.
E la mia fama crebbe, nel villaggio, ed in quell’unico bar, dove anche gli adulti ed i vecchi mi invitavano al loro tavolo per offrirmi da bere.
Sano in salute e naturalmente predisposto all’alcol non sfiguravo nemmeno li.
Ma l’oggetto dei miei desideri restava lontanissima…
Mi guardava dall’alto in basso ed una volta apertamente ridicolizzò perfino la mia conquistata fama di re del ping-pong.
Mi disse che avrei smesso presto di fare il galletto fra i pulcini; venerdì sarebbe arrivato il suo ragazzo… ed allora me ne sarei accorto!... in tutto il cantone non c’era uno bravo come lui!
Mi sarei anche rassegnato ad essere il numero due, ma lo stolto spavaldamente mi sfidò davanti a tutti, al bar; grandi e ragazzi… e c’era anche lei, dietro al bancone, ed intese tutto.
E così, quel venerdì sera c’era tutto il paese, nella FestSaal ad assistere all’incontro.
Evidentemente, per quei bravi montanari si trattava dello scontro fra la soperchieria dell’invasore italiano contro il loro orgoglio nazionale umiliato da giorni!
La mia fata aveva ragione, il ragazzo giocava davvero bene. Ma io vedevo la ragazza stretta fra le sue braccia e ribollivo di rabbia.
Presi a scagliargli le palline addosso quasi a colpirlo fisicamente, e così scoprii subito il suo punto debole.
Aveva un buco di inefficienza giusto fra lo sterno e la clavicola destra.
Ogni palla lanciata con una certa velocità in quel rettangolo era un punto vinto, se non riusciva a spostarsi in fretta; ed il gioco veloce era proprio la mia carta migliore!.
Perse sedici-sette, sedici-sette, sedici-sette al meglio di cinque partite, e perse immediatamente anche la ragazza che lo mandò ramengo su due piedi… e mi si buttò fra le braccia.
Davvero non avrei pensato che per quella gente il tavolo da ping-pong contasse tanto!
Nell’abbraccio di rito, fin troppo caloroso mi sussurrò all’orecchio: “Stasera, dopo la chiusura”.
Mi bastò.
Immaginai rocambolesche arrampicate sui muri dello chalet fino alla sua finestra, ma mentre silenzioso come un’ombra mi accingevo ad arrampicarmi, la porta del bar si aprì e lei semplicemente disse: “entra”.
Non vi racconterò come andò, quella volta, sono un gentiluomo.
Ma la mia giovane amica era a digiuno d’amore da giorni, che il suo fidanzatino, ormai ex, lavorava in una valle vicina tornando a casa solo al fine settimana, ed io, l’ho già detto, ero perdutamente preso di lei già da subito… e quella era la mia ultima notte in Svizzera.
In più ero esaltato dalla sfida vinta.
In più non avevo scienza e conoscenza di ragazze “evolute” come le Elvetiche.
In più la mia compagna era bellissima, bionda, esotica, profumata di fieno e di miele
In più mi esplodeva dentro l’urgenza di conquistare tutto l’universo… subito.
Ed infine lei aveva due seni di classe superiore che mai avrei sognato potessero esistere.
E di una forma che mai avevo nemmeno immaginato.
E due cosce lunghe da vertigini.
E mi voleva. Forse mi aveva voluto dall’inizio… ma non ebbe tempo per dirmelo.
Credo che quell’ “entra” sia stata la sua ultima parola di quella notte, che poi la sua bocca fu perennemente impegnata in altre, diverse, multiformi attività.
Ed a me la mandibola dolse per una settimana… poi.
Le mie dita sciolte a puntino dall’allenamento intensivo nel maneggio delicato e fermo della racchetta da ping-pong si sbizzarrirono in ogni pensabile esercizio, in ogni palpeggio, in ogni sfioramento, in ogni esplorazione… Tutte quelle che mi vennero in mente, tutte quelle in cui lei mi guidò, le tante altre che inventammo insieme il quella notte di sogno.
Le braccia, le cosce le reni, i piedi le ginocchia, i riccioli, le orecchie fecero la loro parte, instancabili come sono gli anni ruggenti della prima gioventù impaziente, con la mente per una notte sgombra da tabù, da condizionamenti, da legacci culturali, da reminiscenze bigotte, da qualsiasi altra cognizione che non fosse li, su quei due metri quadri di bianco e sui due corpi lì sopra abbrancicati.
Poi venne l’alba, che non ci vide spossati e vinti, come si legge nei libri erotici, ma identicamente appassionati e furenti, desiderosi di noi, come nell’attimo di quell’iniziale “entra”.
Solo la titubanza era scomparsa, solo la reticenza, e la timidezza… la passione era ancora dentro, irrefrenabile e possente.
Fu vero amore?... o solo frenesia erotica?... non saprei dirlo, e non mi va, non mi è mai andato di analizzarlo. Questa è una cosa che non ho mai messo sul marmo ghiaccio della mia razionalità, non ho mai esposto ad un esame oggettivo.
Anche il ricordo di quella notte, anche quello che me ne rimane dentro, non volli e non voglio indagarlo, non mi va di “ricostruire” niente, nel pensiero.
L’immagine di quella notte, è quella di una notte speciale.
Avrei avuto altre notti d’amore, altri incontri, altri scontri, altri assalti, altre frenesie….
forse tecnicamente migliori, forse emotivamente più raffinate… ma non uguale a quella.
Quella non fu nemmeno una “prima volta”, non fu una iniziazione.
Quella fu una notte unica.
E non mi piacerebbe ce ne fosse un'altra da confrontare.
Sarebbe come uno sciuparla nel ricordo, sarebbe una profanazione.
Lucio Musto 13 dicembre 2009
Si, ci fu una volta
Si ci fu una volta… ma ero tanto ragazzino che manco me lo ricordo quanto.
I calzoni lunghi li portavo certamente, me lo ricordo, ma non so se per merito dell’età o del freddo pungente di quello sparuto, splendido paesetto svizzero.
Eravamo in viaggio premio, ed erano quelli i tempi che il Ministero dava dei soldi alle scuole affinché a inizio anno (perché all’inizio?... perché poi non ci si doveva più distrarre, bisognava sgobbare!) portassero gli alunni più meritevoli (dell’anno prima) a fare una vacanza lontano da casa, in un paese o una nazione diversa, a giudizio del signor Preside, per dirozzare i discoli e far loro conoscere altre genti, altre mentalità.
Il Ministero elargiva i fondi (pochini, credo), ed il Preside li utilizzava tutti, fino all’ultima lira, a beneficio dei ragazzi, perché gli accompagnatori, i professori che lo chiedevano, usufruivano del biglietto omaggio offerto dalle ferrovie, ma tutte le altre spese, vitto, alloggio ed extra vari, se li pagavano di tasca propria.
E così mi capito di essere in viaggio premio in un paesino svizzero.
Unica volta nella vita che m’è riuscito di avere un premio.
Ed ero il campione di ping-pong.
Gli Svizzeri di quel paesino, allora (non so se ancora oggi) giocavano il ping-pong su un tavolo di truciolato morbidissimo, con una particolare palla di gomma traforata grande come una pallina da golf o forse anche più.
Facile intuire che ne uscisse un palleggio lentissimo, per i nostri standard, ed estremamente tecnico.
Io avevo con me la mia racchetta duble-face studiata per i piani laccati duri regolamentari e le velocissime palline di celluloide… troppo evidente che avessi vita facile, considerando che io a ping-pong ci sapevo giocare abbastanza bene e certo non mancavo di fiato e forza scattante, com’è invece oggi che arranco anche a fare una rampa di scale!.
Ero dunque il campione sul campo, pronto ad accettare qualunque sfida… e naturalmente ero innamorato.
Mi innamorai della barista-cameriera-signorina tuttofare figlia del proprietario dello chalet che ci ospitava sin dalla prima sera, quella degli spaghetti, come ho già raccontato un’altra volta, e la mia passione crebbe tumultuosamente per tutta la settimana che trascorremmo in Svizzera… ma ero fra i più giovani dei galletti italiani sbarcati fra quelle montagne, e avevo nessuna speranza di salire di rango fino alla conquista di quella splendida femmina alfa!
Ed allora mi sfogavo nel ping-pong facendo vittime illustri; tutti i bulletti del paese mi sfidarono, e ci lasciarono le penne.
E la mia fama crebbe, nel villaggio, ed in quell’unico bar, dove anche gli adulti ed i vecchi mi invitavano al loro tavolo per offrirmi da bere.
Sano in salute e naturalmente predisposto all’alcol non sfiguravo nemmeno li.
Ma l’oggetto dei miei desideri restava lontanissima…
Mi guardava dall’alto in basso ed una volta apertamente ridicolizzò perfino la mia conquistata fama di re del ping-pong.
Mi disse che avrei smesso presto di fare il galletto fra i pulcini; venerdì sarebbe arrivato il suo ragazzo… ed allora me ne sarei accorto!... in tutto il cantone non c’era uno bravo come lui!
Mi sarei anche rassegnato ad essere il numero due, ma lo stolto spavaldamente mi sfidò davanti a tutti, al bar; grandi e ragazzi… e c’era anche lei, dietro al bancone, ed intese tutto.
E così, quel venerdì sera c’era tutto il paese, nella FestSaal ad assistere all’incontro.
Evidentemente, per quei bravi montanari si trattava dello scontro fra la soperchieria dell’invasore italiano contro il loro orgoglio nazionale umiliato da giorni!
La mia fata aveva ragione, il ragazzo giocava davvero bene. Ma io vedevo la ragazza stretta fra le sue braccia e ribollivo di rabbia.
Presi a scagliargli le palline addosso quasi a colpirlo fisicamente, e così scoprii subito il suo punto debole.
Aveva un buco di inefficienza giusto fra lo sterno e la clavicola destra.
Ogni palla lanciata con una certa velocità in quel rettangolo era un punto vinto, se non riusciva a spostarsi in fretta; ed il gioco veloce era proprio la mia carta migliore!.
Perse sedici-sette, sedici-sette, sedici-sette al meglio di cinque partite, e perse immediatamente anche la ragazza che lo mandò ramengo su due piedi… e mi si buttò fra le braccia.
Davvero non avrei pensato che per quella gente il tavolo da ping-pong contasse tanto!
Nell’abbraccio di rito, fin troppo caloroso mi sussurrò all’orecchio: “Stasera, dopo la chiusura”.
Mi bastò.
Immaginai rocambolesche arrampicate sui muri dello chalet fino alla sua finestra, ma mentre silenzioso come un’ombra mi accingevo ad arrampicarmi, la porta del bar si aprì e lei semplicemente disse: “entra”.
Non vi racconterò come andò, quella volta, sono un gentiluomo.
Ma la mia giovane amica era a digiuno d’amore da giorni, che il suo fidanzatino, ormai ex, lavorava in una valle vicina tornando a casa solo al fine settimana, ed io, l’ho già detto, ero perdutamente preso di lei già da subito… e quella era la mia ultima notte in Svizzera.
In più ero esaltato dalla sfida vinta.
In più non avevo scienza e conoscenza di ragazze “evolute” come le Elvetiche.
In più la mia compagna era bellissima, bionda, esotica, profumata di fieno e di miele
In più mi esplodeva dentro l’urgenza di conquistare tutto l’universo… subito.
Ed infine lei aveva due seni di classe superiore che mai avrei sognato potessero esistere.
E di una forma che mai avevo nemmeno immaginato.
E due cosce lunghe da vertigini.
E mi voleva. Forse mi aveva voluto dall’inizio… ma non ebbe tempo per dirmelo.
Credo che quell’ “entra” sia stata la sua ultima parola di quella notte, che poi la sua bocca fu perennemente impegnata in altre, diverse, multiformi attività.
Ed a me la mandibola dolse per una settimana… poi.
Le mie dita sciolte a puntino dall’allenamento intensivo nel maneggio delicato e fermo della racchetta da ping-pong si sbizzarrirono in ogni pensabile esercizio, in ogni palpeggio, in ogni sfioramento, in ogni esplorazione… Tutte quelle che mi vennero in mente, tutte quelle in cui lei mi guidò, le tante altre che inventammo insieme il quella notte di sogno.
Le braccia, le cosce le reni, i piedi le ginocchia, i riccioli, le orecchie fecero la loro parte, instancabili come sono gli anni ruggenti della prima gioventù impaziente, con la mente per una notte sgombra da tabù, da condizionamenti, da legacci culturali, da reminiscenze bigotte, da qualsiasi altra cognizione che non fosse li, su quei due metri quadri di bianco e sui due corpi lì sopra abbrancicati.
Poi venne l’alba, che non ci vide spossati e vinti, come si legge nei libri erotici, ma identicamente appassionati e furenti, desiderosi di noi, come nell’attimo di quell’iniziale “entra”.
Solo la titubanza era scomparsa, solo la reticenza, e la timidezza… la passione era ancora dentro, irrefrenabile e possente.
Fu vero amore?... o solo frenesia erotica?... non saprei dirlo, e non mi va, non mi è mai andato di analizzarlo. Questa è una cosa che non ho mai messo sul marmo ghiaccio della mia razionalità, non ho mai esposto ad un esame oggettivo.
Anche il ricordo di quella notte, anche quello che me ne rimane dentro, non volli e non voglio indagarlo, non mi va di “ricostruire” niente, nel pensiero.
L’immagine di quella notte, è quella di una notte speciale.
Avrei avuto altre notti d’amore, altri incontri, altri scontri, altri assalti, altre frenesie….
forse tecnicamente migliori, forse emotivamente più raffinate… ma non uguale a quella.
Quella non fu nemmeno una “prima volta”, non fu una iniziazione.
Quella fu una notte unica.
E non mi piacerebbe ce ne fosse un'altra da confrontare.
Sarebbe come uno sciuparla nel ricordo, sarebbe una profanazione.
Lucio Musto 13 dicembre 2009