Questo episodio è per 3\4 della mia vita, e uno dei ragazzi ero io, il resto l'ho saputo da 2 persone e da un ferroviere. Poi lo scrissi e doveva far parte di un libro di racconti. (vale?)
Il campanello finalmente cominciò a suonare. Una coppia di mezza età si girò a guardarlo, lassù, sopra al cartellone degli arrivi.
La donna guardò l'orologio della stazione ma segnava le tre di qualche anno prima. Si rivolse allora al marito che guardandosi il polso disse: «Manca un quarto a mezzanotte».
«Meno male non ne potevo più mi fanno male le gambe e le panchine sono così sudice...».
Lui le sorrise passandole un braccio intorno alle spalle e tirandola delicatamente a sé. Anche lei sorrise appoggiando la testa sulla spalla del marito. Quanta vita insieme li legava, sempre soli, contro tutto.
Il capostazione si alzò dalla scrivania. L'ultimo treno della giornata con una buona mezz'ora di ritardo stava finalmente arrivando.
La fine del turno quel giorno gli era sembrata irraggiungibile, anche senza questo contrattempo, e la comunicazione del treno bloccato per un guasto in mezzo alla campagna gli era sembrata davvero un'ingiustizia che la vita gli infliggeva, così, per il puro gusto di vederlo soffrire. Fortunatamente il macchinista era riuscito a trovare un rimedio e il treno aveva ripreso la sua corsa con un ritardo, tutto sommato, abbastanza contenuto.
Ancora pochi minuti e la stazione sarebbe stata chiusa. Sarebbe tornato a casa finalmente e dopo una cena molto leggera e veloce avrebbe affidato al letto tutta la stanchezza della giornata. L'indomani, avendo la giornata libera, forse avrebbe portato Elisa a fare una gita sul lago e al momento giusto le avrebbe confessato l'intensità dei suoi sentimenti. Lei come avrebbe reagito? Naturalmente avrebbe riso con quel suo modo di ridere gioioso ed ingenuo e gli avrebbe detto: «No! Ma come ti viene in mente? Io ti voglio bene ma come ad un amico, ad un fratello». Poi l'avrebbe guardato inclinando leggermente la testa di lato e con tono infantile avrebbe aggiunto: «Non prendertela, dai, non rovinare tutto». (quante volte lo dicono?) Lui sarebbe rimasto lì: in piedi, schiacciato dal peso di quel rifiuto che avrebbe sancito, definitivamente, il suo stato di uomo solo.
Aveva solo quarantadue anni ma si sentiva svuotato e vecchio. Vedeva che la parte migliore della sua vita era ormai passata e quella che rimaneva gli sembrava cupa e gelida.
Quella gelida cupezza che presentiva dentro venne subito attenuata dal venticello tiepido e piacevole che corse ad abbracciarlo appena varcò la porta del suo ufficio.
L'aria era profumata e gli infuse vitalità e speranza. Odorava di catrame delle traversine.
Amava quell'odore fin da bambino. Un giorno suo padre lo aveva portato a vedere i treni e quel pomeriggio nella sua memoria era diventato il simbolo della felicità. Quell'odore così "ferroviario", associato al ricordo di un tempo bello e perduto per sempre, lo aveva influenzato profondamente e quando, appena terminati gli studi, venne a sapere che le ferrovie avevano bandito un concorso per assumere personale, a lui sembrò che la vita gli facesse l'occhiolino e vi partecipò con la certezza assoluta che lo avrebbe vinto.
Confortato da quell'odore al quale, ad ondate, si aggiungeva il profumo dolciastro e sensuale di qualche arbusto fiorito, ebbe la sensazione che l'indomani con Cristina le cose avrebbero anche potuto andare in un modo migliore di quello che il suo pessimismo, poco prima, gli aveva fatto immaginare.
La campanella smise di suonare, il treno stava per percorrere l'ultima curva e poi sarebbe apparso là in fondo, all'altro capo del rettilineo che dopo qualche centinaio di metri lo avrebbe condotto in stazione.
Il capostazione avanzò fino al bordo della banchina si sporse un poco e guardò a destra in attesa di vedere le luci del treno apparire alla fine della curva.
Le luci apparvero ma qualcosa non era al suo posto: le motrici diesel di quel tipo avevano due fanali bassi ed un faro in alto, al centro, simile all'occhio di un ciclope. Questa invece aveva una quarta luce, tremolante, collocata in mezzo ai due fanali solo molto più in basso.
«È molto strano!», pensò, «Sembra ... come se ... come se davanti al treno...»
In quel preciso momento anche il macchinista si accorse di qualcosa di strano: c'era un puntino rosso davanti a lui, laggiù tra i binari, sembrava un lumicino da morto ma oscillava a scatti in alto e in basso e più lentamente a destra e a sinistra.
Il macchinista prontamente azionò i freni mentre cercava di capire cosa diavolo fosse quella luce che sembrava ora più vicina.
Il capostazione chiamò i due ferrovieri che stavano facendo il suo stesso turno: «Non sembra anche a voi che ci sia ...»
Proprio in quel momento il treno cominciò a fischiare con rabbia ed insistenza.
Uno dei tre ferrovieri urlò: «Ma c'è un tizio in moto tra i binari, davanti al treno!»
«Hai ragione!», esclamò il secondo, «Aspetta... ecco... si... sembra... sono due, due imbecilli su una vespa!»
Il capostazione comprese subito che il treno li avrebbe travolti e non sapeva che pesci pigliare in preda ad un'angoscia opprimente che lo rendeva meno lucido di quel che sarebbe servito. Si ripeteva di continuo: «Cosa devo fare? Cosa diavolo devo fare?», ma cosa poteva mai fare?
I freni non riuscivano a neutralizzare la spinta che la massa dei vagoni scaricava sulle ruote e il treno rallentava troppo poco anche se i poveri passeggeri, ignari di quanto accadeva, sballottati e strattonati senza preavviso, se qualcuno li avesse intervistati, avrebbero detto che rallentava anche troppo.
Il macchinista vedendo la moto con i due folli sventurati farsi sempre più vicina non poteva più fare altro che suonare, come se questo potesse cambiare le cose, suonava e urlava dentro la cabina.
Lo scriteriato ai comandi della Vespa, d'altro canto, andava già un po' più veloce di quanto fosse consigliabile. Con quelle ruotine cosi piccole sui ciottoli tra le traversine ancora viscide per la pioggia pomeridiana la povera moto saltava e sbandava pericolosamente. Il passeggero si girava in modo ossessivo per misurare la distanza dal treno che indifferente agli sforzi dei suoi stessi freni continuava a guadagnare terreno.
Un muro di acciaio fischiante ed ululante stava per piombare su di loro e il passeggero smise di guardare avanti per cercare di respingere quel mostro con la sola forza dello sguardo e i riflessi dei fari del treno sulla visiera del casco integrale, lí sotto, poco avanti, apparivano al macchinista sconvolto come orribili presagi della tragedia imminente.
I due respingenti della motrice erano ormai a meno di due metri dalla moto quando i vagoni, ormai stanchi, si rassegnarono al dominio dei freni ed il treno cominciò a perdere terreno.
Il macchinista scampato il pericolo si scoprì davvero imbestialito e quel treno comincio a fischiare ed ululare con rabbia furibonda che sembrava di sentire in quel lugubre fischio, ripetuto ad oltranza, insulti, imprecazioni e bestemmie irripetibili. In tutta la zona la gente uscì sui balconi e si affacciò alle finestre per cercare di capire: non avevano mai sentito un treno maledire in quel modo, tanto meno di notte, e ne furono molto impressionati.
La vespa guadagnò qualche metro ed entrò in stazione, traballante e sbandante, mentre il treno terminava di fermarsi subito prima dell'inizio delle banchine.
Il capostazione ripreso il controllo di sé urlò ai suoi attendenti: «Prendiamoli, non devono scappare!» e i tre si disposero a far barriera allargando braccia e gambe, come difensori in un incontro di football americano: la barriera era invalicabile e l'unica uscita dai binari era lì. Avrebbero fatto passar la voglia a quei due sciagurati delinquenti di ripetere una simile bravata. Erano assolutamente decisi a fermarli a qualunque costo.
Non appena le piccole ruote della scooter lasciarono l'ultima traversina e riconobbero al tatto il loro amato elemento: l'asfalto, la motoretta accelerò puntando dritto i ferrovieri che si scansarono prontamente dimenticando ogni precedente velleità.
La vespa - che avendo la marmitta senza silenziatore faceva un baccano infernale - salì sulla banchina, evitò per un soffio la coppia attonita - che restò lì, immobile ed incredula - e si dileguò fuori dalla stazione passando dall'ingresso per le merci. Attraversò il grande piazzale e, dopo aver percorso un vialone alberato, si fermò davanti all'entrata di un bar, tra altre moto, e, finalmente, dopo aver chiuso il suo occhio luminoso, trovò pace.
Il passeggero scese e si tolse il casco. Era un ragazzino di sedici anni, si chiamava Paolo, ma per tutti era "Ed" dato che era un metallaro e gli piacevano gli Iron Maiden.
«Bella scorciatoia di merda!» ringhiò in direzione del compagno che, sollevata la sella, cercava qualcosa nel portaoggetti. Questi era "An", abbreviativo di "Anatra": da bambino amava i fumetti di Paperinik, lo si era saputo e da allora lo chiamavano così e a lui non dispiaceva.
Aprì la visiera del casco e rispose: «Stai diventando una fighetta, Ed! Si traballava un po'. Non mi lamento io per la moto, ti lamenti tu per quelle tue chiappe secche? E dai non rompere il cazzo. Oh piuttosto, hai visto come se la son fatta sotto quei cazzoni di ferrovieri?»
«An, ...» ribattè l'altro, «... quel cazzo di treno stava per tirarci sotto, a volte sei davvero troppo fuori di testa».
Anatra rise, poi vide lo sguardo davvero incazzato di Ed e, diventato serio, chiese: «Quale treno?».