Qualcosa sul pensiero
Il problema più generale del pensiero è forse quello della sua necessità: non della necessità di pensare, ma di come pervenire ad un pensiero necessario.
La prima esperienza del pensiero sta nel fatto che non abbiamo scelta, che non vogliamo averla e che non diremo mai ciò che più desideriamo.
Per questo il pensatore è felice quando non ha più scelta.
C'è notevole correlazione tra pensiero e necessità e, ancor più viene in evidenza il legame tra la necessità e l'esteriorità.
Il pensiero, in effetti, non decide che cosa sia necessario e quanto viene pensato non deve affatto dipendere da lui.
Verità è il modo in cui un uomo che pensa chiama questa necessità, riscontrandovi non solo l'oggetto di una rivelazione, ma anche l'esatto contenuto corrispondente a quanto deve essere detto o pensato. Ciò ha condotto l'uomo pensante a raddoppiare la verità stessa con un correlato esterno alla mente, indipendente da essa e identico a sè (la realtà e la sua essenza).
Chi pensa innanzitutto vuole conoscere e dunque va ad ammettere volentieri che le sorti del suo pensiero si giochino nel suo rapporto con l'esteriorità.
Quest'ultima ( che chiamerò evento ) non è ciò che accade ( accadimento ), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta, è ciò che deve essere compreso, ciò che deve essere valutato, ciò che deve essere rappresentato in ciò che accade.
Il problema generale di cui la logica dell'evento sviluppa le condizioni, è quello dell'immanenza: credere a questo mondo, ossia ad un mondo che prenda su di sè la divergenza, l'eterogeneità, l'incompossibilità.
Credere non ad un altro mondo, ma al legame fra uomo pensatore e mondo, all'amore o alla vita, crederci come all'impossibile, all'impensabile, che tuttavia può essere solo pensato ( un pò di possibile sennò soffoco ). Questa credenza fa dell'impensato la potenza propria del pensiero, per assurdo... in virtù dell'assurdo.
Non è da considerare l'impotenza a pensare come una semplice inferiorità che ci colpirebbe in rapporto al pensiero. Appartiene al pensiero, sicchè dobbiamo farne il nostro modo di pensare, senza pretendere di ripristinare un pensiero onnipotente. Dobbiamo piuttosto servirci di questa impotenza per credere alla vita e trovare l'dentità tra pensiero e vita.
Fatto è che noi non crediamo più a questo mondo ( è facile non crederci più ).
Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l'amore, la morte, è come ci riguardassero solo a metà.
Il legame fra uomo pensante e mondo si è rotto.
E' questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza (di ripristino): l'impossibile che ci può essere restituito in quanto vero (perchè esiste).
Il problema più generale del pensiero è forse quello della sua necessità: non della necessità di pensare, ma di come pervenire ad un pensiero necessario.
La prima esperienza del pensiero sta nel fatto che non abbiamo scelta, che non vogliamo averla e che non diremo mai ciò che più desideriamo.
Per questo il pensatore è felice quando non ha più scelta.
C'è notevole correlazione tra pensiero e necessità e, ancor più viene in evidenza il legame tra la necessità e l'esteriorità.
Il pensiero, in effetti, non decide che cosa sia necessario e quanto viene pensato non deve affatto dipendere da lui.
Verità è il modo in cui un uomo che pensa chiama questa necessità, riscontrandovi non solo l'oggetto di una rivelazione, ma anche l'esatto contenuto corrispondente a quanto deve essere detto o pensato. Ciò ha condotto l'uomo pensante a raddoppiare la verità stessa con un correlato esterno alla mente, indipendente da essa e identico a sè (la realtà e la sua essenza).
Chi pensa innanzitutto vuole conoscere e dunque va ad ammettere volentieri che le sorti del suo pensiero si giochino nel suo rapporto con l'esteriorità.
Quest'ultima ( che chiamerò evento ) non è ciò che accade ( accadimento ), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta, è ciò che deve essere compreso, ciò che deve essere valutato, ciò che deve essere rappresentato in ciò che accade.
Il problema generale di cui la logica dell'evento sviluppa le condizioni, è quello dell'immanenza: credere a questo mondo, ossia ad un mondo che prenda su di sè la divergenza, l'eterogeneità, l'incompossibilità.
Credere non ad un altro mondo, ma al legame fra uomo pensatore e mondo, all'amore o alla vita, crederci come all'impossibile, all'impensabile, che tuttavia può essere solo pensato ( un pò di possibile sennò soffoco ). Questa credenza fa dell'impensato la potenza propria del pensiero, per assurdo... in virtù dell'assurdo.
Non è da considerare l'impotenza a pensare come una semplice inferiorità che ci colpirebbe in rapporto al pensiero. Appartiene al pensiero, sicchè dobbiamo farne il nostro modo di pensare, senza pretendere di ripristinare un pensiero onnipotente. Dobbiamo piuttosto servirci di questa impotenza per credere alla vita e trovare l'dentità tra pensiero e vita.
Fatto è che noi non crediamo più a questo mondo ( è facile non crederci più ).
Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l'amore, la morte, è come ci riguardassero solo a metà.
Il legame fra uomo pensante e mondo si è rotto.
E' questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza (di ripristino): l'impossibile che ci può essere restituito in quanto vero (perchè esiste).