Anonimo Verbanese
1998
Canto Quarto
Procedevamo assorti e circospetti
Guatando tra lo squallido pietrisco:
“Caro Tonino, se me lo permetti
vorrei farti notar che compatisco
la sorte di Liguori un pochettino;
invece, per quel poco che capisco,
tu non lo compatisci, e l’hai persino
come una palla a schiaffi e a calci preso
senza mostrar pietà per quel tapino”.
Di Pietro mi fissò molto sorpreso,
quasi parlar sentito non mi avesse,
poi disse: “Non sei tu quello che ha offeso
per anni nelle sue rubriche fesse,
non tu quel che con bufale inventate
a bersaglio da distruggere elesse:
è facile ostentar nobilitate
quando non si è coinvolti di persona
ed ammantarsi con pose studiate
dell’aura di chi sempre poi perdona”.
Tacqui umiliato da quelle parole
come chi su quel che non sa sragiona.
“Ecco che finalmente, se Dio vuole,
quest’altipiano, che tanto ti pesa,
sta per finire, ma le capriole
non far di gioia, ché una nuova impresa
ti attende dove siamo ora diretti”.
Ed ecco che imboccammo una discesa
da slalom, tuttavia senza paletti,
che ci menò vicino a una palude
fredda e infestata da orribili insetti
e in cui languivan delle larve nude
di quei che furon uomini una volta.
Allor Tonino, con un fare rude,
dopo che una moneta si fu tolta
di tasca, la gettò nel fango sporco:
ed ecco che su quella allor con molta
furia precipitò una specie d’orco,
con gran rimestamento della mota,
avido grufolando come un porco.
“Guarda costui, che dentro il fango nuota
con grande affanno per una moneta,
che sol nel numismatico si nota
se quella è rara: questi mai la dieta
in vita volle far, ma fece a gara
coi più grandi ribaldi del pianeta
a diffamar gli onesti e a far cagnara
e a trarne in premio sordidi guadagni:
ecco che sei al cospetto di Ferrara
dall’epa, il culo e i fianchi troppo magni”.
Avea costui tra i denti bene stretto
la monetina, e lanciava ai compagni
sguardi di sfida, già gonfiando il petto,
quando un bel damerino mezza sega
lisciandosi con cura il bel ciuffetto:
“È mia di me, perciò non me la nega,
tu, cacca, merda, piscia, culo grasso!”
tosto inveì come chi giammai prega;
“Piantala, Sgarbi, di fare il gradasso,
la moneta appartiene a chi l’ha presa,
non rompere i ciglioni e cedi il passo,
ché, se la vuoi, con facile difesa
me la terrò, e tu certo in ritirata
batterai allor con qualche parte lesa”.
“È mia di me, Giulano l’Apostàta,
perché di te io son più intelligente
e fo televisione più sgarbata”
“Questo non c’entra adesso proprio niente,
se tu sei intelligente, io son grosso,
e oppongo i pugni alla tua fine mente”.
“È mia di me, Giulano, molla l’osso!”
sbraitò isterico Sgarbi senza occhiali,
ma fu all’istante al fegato percosso
da cinque sergozzoni, tali e quali
a quel che sul ring dava Marciano,
sicché la sua protervia mise le ali
e poi si inabissò molto lontano
dov’era la palude più profonda,
lasciando invitto il manesco Giuliano”.
“Ma che genìa è mai questa, tanto immonda,
chiesi a Di Pietro in risentito dire,
che nuda e dentro il fango si sprofonda
eppur bisticcia per cinquanta lire?”
“Eccoti del Berlusca le fanfare
che di fasulle si ammantavan ire
in tele e sui giornali, per campare
come nababbi a Capri e a Portofino,
dove inquinaron gran tratti di mare”.
“Ma taci, tu, somaro di un Tonino,
che sempre ti sei fatto troppo bello
d’aver perseguitato il mio Bettino
e di avermi sconfitto nel Mugello,
dove i votanti sono analfabeti
e scelgon sol la falce col martello
perché son tutti rossi e mangiapreti”.
“O tu, forzitaliota socialista,
che provochi il tornado quando peti,
non voglio stare qui a fare la lista
delle più clamorose malefatte
del tuo Bettino e Silvio il piduista,
oppur di quelle lerce teste matte
di Previti e Squillante, ma ti basti
sapere che nessuno Silvio batte
nel fare affari sporchi e poco casti
non sol da noi, ma pure in Spagna e Francia:
tu lo sapevi, eppur fermo restasti
senza far nulla, a grattarti la pancia,
e allora più non farmi morale
e porgimi piuttosto l’altra guancia”.
Barrì Ferrara allora in modo tale
che il fango schizzò via per ogni dove
come lanciato da seimila pale.
”Partiam, che in questo luogo troppo piove,
disse Tonino forbendosi il viso,
perché ci aspettan già contrade nuove”.
Col mio vestito lordo e tutto liso
allora lo seguii dentro una grotta
che non pareva proprio un paradiso,
più fredda dei gelati della Motta
e oscura come frasi di Mancuso.
“Se ancor ti piace qualche bella potta,
a cui per gli anni ormai più non sei aduso,
(sessantaquattro avevo primavere),
allor qui dentro non sarai deluso
che almeno un paio ne potrai vedere”
disse Tonino e subito mi venne
per smania il fuoco su per il sedere,
mi ricomposi e poi drizzai le antenne.