1. I Vangeli canonici di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, che, come ci ricorda Strauss e ammettono oggi tutti gli studiosi, sono interpretazioni della figura di Gesù alla luce della fede, non hanno alcun valore come testimonianza storica? C’è veramente tra l’interpretazione dei Vangeli canonici e la figura storica di Gesù quel «fossato incolmabile», che a detta di molti studiosi impone di dar vita a un Gesù storico completamente diverso da quello dei Vangeli?
2. I Vangeli apocrifi, che giustamente vengono oggi presi in considerazione accanto a quelli canonici quali documenti di un'altra, e diversa, interpretazione della figura di Gesù rispetto a quella fornita dai Vangeli canonici, modificano realmente l’immagine di Gesù che la tradizione storiografica, fondamentalmente cristiana, e teologicamente orientata, ha costruito sulla sola base dei Vangeli canonici?
3. E il carattere ebreo di Gesù di Nazaret, che giustamente viene ritenuto essenziale per una comprensione storica (e non confessionale) della sua azione e predicazione, significa che Gesù resta completamente all’interno della tradizione giudaica e che il distacco del cristianesimo dal giudaismo, la nascita quindi del cristianesimo come religione distinta e separata dal giudaismo, è frutto soltanto di decisioni posteriori dei suoi seguaci?
E a queste tre domande che la discussione attuale sul Gesù storico deve dare una risposta soddisfacente, se non vuole tornare a una figura di Gesù basata sulla lettura ingenua dei Vangeli canonici, ma non vuole d'’altra parte cadere in una interpretazione fatalmente ideologica di quella figura.
1.
Alla prima domanda non posso dare qui che una risposta estremamente rapida, perché richiederebbe una analisi approfondita, impossibile in un articolo di rivista. I Vangeli canonici rileggono la storia di Gesù alla luce della fede della Chiesa. Sono perciò indiscutibilmente una interpretazione teologica, non storica, della figura di Gesù. E sono una interpretazione teologica che la Chiesa ha scelto tra altre perché in essa ha ritenuto di riconoscere il fondamento della propria fede.
Ma da un lato bisogna ricordare che, a differenza di quanto a volte si afferma, questa scelta della Chiesa non è stata semplicemente l’operazione arbitraria di un potere ecclesiastico che voleva recidere ogni legame con la tradizione giudaica per fare spazio alla Chiesa nel mondo romano. In realtà si deve ammettere che, non esistendo ancora un potere ecclesiastico centrale (un papa o dei Concili ecumenici), quei testi si sono imposti alla maggioranza delle Chiese come l’interpretazione, teologica certamente, non storica in cui le Chiese stesse riconoscevano l’autenticità della propria fede.
Ma soprattutto bisogna affermare che, pur essendo i Vangeli canonici indiscutibilmente interpretazioni di fede della persona di Gesù, essi non perdono mai il legame con la sua figura storica. La scelta di quella singolare, e nuova, forma letteraria che è il Vangelo per parlare della persona di Gesù - forma nella quale l’insegnamento del maestro è trasmesso nella cornice di un racconto della sua vicenda storica - rivela che la preoccupazione principale dei Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni è proprio quella di affermare l’identità paradossale del Cristo glorioso nel quale essi credono col Gesù storico dei primi testimoni. I Vangeli canonici sono certamente testi «kerygmatici» (dal greco antico kerusso, proclamare, n.d.r.), che proclamano la fede dei seguaci di Gesù, ma questa fede la proclamano narrando la storia del loro maestro.
2.
Possiamo dire lo stesso dei Vangeli apocrifi? I Vangeli apocrifi costituiscono una realtà estremamente complessa e variegata. Devono essere perciò discussi distinguendo accuratamente gli uni dagli altri. Con un po’ di approssimazione possiamo distinguere in particolare i Vangeli della nascita e della infanzia di Gesù e di Maria, i Vangeli gnostici, i Vangeli di Pietro e di Tommaso e i Vangeli detti comunemente giudeo-cristiani.
I Vangeli della nascita e della infanzia di Gesù e di Maria sono prodotti di una letteratura popolare preoccupata, da un lato, di completare in maniera leggendaria le scarsissime notizie dei Vangeli canonici sui loro personaggi, dall’altro, di difendere in maniera spesso ingenua e banale punti di dottrina non chiaramente affermati da quei Vangeli.
Ampiamente tollerati dalla Chiesa perché dogmaticamente non pericolosi, diffusissimi anzi nel Medioevo come strumenti efficaci di predicazione popolare (si pensi alla grandissima diffusione del più noto e antico di essi, il Vangelo di Giacomo), questi Vangeli della nascita e della infanzia non contengono nulla che possa realmente servire alla ricostruzione della figura storica di Gesù.
Diverso è il caso dei Vangeli gnostici, i più importanti dei quali sono il Vangelo di Verità, il Vangelo di Filippo, il Vangelo di Maria (di Magdala) e oggi, magari, il Vangelo di Giuda. Lo gnosticismo è infatti una dottrina particolarmente complessa, della quale è estremamente difficile definire (e non c'’è infatti accordo tra gli studiosi per farlo) non soltanto l’origine storica, ma la stessa natura. Con un po’ di generalizzazione, e tenendo conto soprattutto del ramo più significativo dello gnosticismo, costituito dalla scuola valentiniana, possiamo dire tuttavia alcune cose.
Nella sua forma matura, che non è precedente al II secolo, lo gnosticismo è una dottrina religiosa a carattere fortemente dualistico. Lo gnostico si sente infatti del tutto estraneo al mondo materiale nel quale vive. Convinto di avere la propria origine in una realtà divina primordiale (il pleroma), desidera perciò liberarsi da questo mondo per tornare alla realtà originaria.
Questo ritorno non può tuttavia avvenire con le sole proprie forze, ma è reso possibile dalla rivelazione di un essere celeste, che con la conoscenza (la gnosi) della propria natura divina porta allo gnostico anche la redenzione, la liberazione dal mondo materiale. Nella dottrina valentiniana questo essere celeste non è però il Gesù terreno nato da Maria, ma il Cristo invisibile disceso dall'alto. E questo Cristo invisibile non può realmente incarnarsi, perciò la sua morte è puramente apparente (docetismo). La rivelazione che egli porta non ha luogo d'’altra parte durante la sua vita, ma dopo la sua «risurrezione». Ed è rivolta non a tutti gli uomini, ma al piccolo gruppo degli eletti (esoterismo).
In questa forma matura, che appartiene, come ho detto, al II e III secolo, lo gnosticismo rappresenta una evidente alternativa al cristianesimo della «grande Chiesa». E cosi infatti lo hanno percepito i Padri della Chiesa, a cominciare da Ireneo di Lione e Ippolito di Roma. Il problema allora è: possiamo considerare questo Cristo gnostico come una diversa, ma egualmente legittima, interpretazione del Gesù storico rispetto a quella dei Vangeli canonici? Ha quindi questo Cristo gnostico qualcosa da dirci sulla figura storica di Gesù?
Le poche cose che ho detto fin qui contengono già in gran parte la risposta. Salvo rarissime eccezioni, la figura del Cristo gnostico non ha nulla a che fare col Gesù storico. A differenza del Gesù dei Vangeli canonici, la sua rivelazione non ha luogo nella comune storia umana e non si rivolge a tutti gli uomini. In realtà i Vangeli gnostici non vogliono essere il racconto della storia di Gesù cosi come si è svolta nella Palestina del primo secolo, ma contengono un mito di redenzione dell'’uomo da parte di un salvatore celeste fuori del tempo. E anch’essi, dunque, non contribuiscono in nulla alla conoscenza del Gesù storico.
Il discorso diventa più difficile quando si affrontano il Vangelo di Pietro e il Vangelo di Tommaso, la cui origine è certamente molto antica e il cui carattere gnostico non è affatto evidente. E non è quindi un caso che a essi Koester, e soprattutto Crossan, facciano particolarmente ricorso per costruire la loro immagine del Gesù storico.
Ma nella forma in cui è pervenuto a noi, che contiene soltanto il racconto della morte e della risurrezione di Gesù, il Vangelo di Pietro non è stato redatto prima della metà del II secolo e mostra due caratteri che ne inficiano gravemente l’attendibilità storica. Da un lato infatti narra l’evento della risurrezione come un fatto storico, al quale avrebbero assistito insieme autorità giudaiche e soldati romani, nell’intento palese di assicurare la realtà fisica della risurrezione. Per la prima volta, quindi, la risurrezione è presentata (e banalizzata) come un fatto empirico, della cui realtà tutti possono dare testimonianza.
Dall’altro, mostrando una evidente ignoranza delle condizioni storiche reali del tempo, il Vangelo attribuisce l’esecuzione della condanna di Gesù interamente ai Giudei, nell’intento palese di addossare soltanto a essi, e non anche ai Romani, la responsabilità della sua morte. Gli intenti apologetici prevalgono chiaramente su quelli storici.
Resta dunque soltanto il Vangelo di Tommaso. E qui bisogna dire che la discussione tra gli studiosi è del tutto aperta, sicché qualunque conclusione che voglia presentarsi come definitiva appare prematura. E possibile, infatti, sia che qualche detto del testo che non ha alcun parallelo nei Vangeli sinottici sia autentico, sia che qualche detto che ha il suo parallelo nei Vangeli sinottici sia stato trasmesso dal testo in una forma più vicina all’originale. E soprattutto, se la forma attuale del Vangelo di Tommaso costituisce l’esito finale di uno sviluppo del testo che ha la sua origine in un’epoca molto più antica, il fatto che il Vangelo di Tommaso, come la fonte Q, raccogliesse soltanto parole di Gesù pone realmente il problema di quella che è stata la prima immagine di Gesù annunciata dai suoi discepoli. Si è visto in Gesù, prima ancora che il Cristo salvatore morto e risuscitato, il maestro giudeo di una nuova sapienza? O perlomeno le due immagini hanno potuto coesistere tra i suoi discepoli per un tempo non breve? È certamente possibile. Ma anche in questo caso bisogna dire che l'immagine storica di Gesù non appare molto diversa da quella tradizionale fondata sui Vangeli canonici. È nei detti di Gesù che hanno carattere «gnostico» (e che appaiono decisamente più tardivi) che la sua figura appare infatti veramente diversa da quella dei Vangeli canonici.
3.
A me sembra, in realtà, che un’altra strada possa rivelarsi più fruttuosa per giungere a una immagine attendibile di Gesù e dare quindi una risposta corretta al problema del Gesù storico. Ed è quella della tradizione che si usa definire giudeocristiana, la quale, in qualche modo, ha il suo eroe in Giacomo fratello di Gesù (si tratta, non a caso, di uno dei temi preferiti dell’attuale ricerca sulle origini del cristianesimo).
Esistono frammenti di Vangeli trasmessi dai Padri della Chiesa ed esistono, non dimentichiamolo, la fonte Q inserita da Luca e da Matteo nei rispettivi Vangeli e poi anche la Lettera di Giacomo accolta nel Nuovo Testamento, che della figura di Gesù danno una interpretazione, teologica anch'essa, ma diversa da quella dei Vangeli canonici (e di Paolo), perché più legata alla tradizione giudaica.
Ancora nel quarto secolo ci sono anzi dei giudeo-cristiani, i Nazareni, che secondo il vescovo e Padre della Chiesa Epifanio di Salamina (315 circa-403) «non differiscono dai giudei e dai cristiani che in una sola cosa: con i giudei non sono d’accordo perché credono in Cristo, con i cristiani perché rispettano la legge, la circoncisione, il sabato e il resto» (Panarion 29,7,5). La fede nella persona di Gesù, e in particolare la fede nel valore salvifico della sua morte e risurrezione, non comporta per questi giudeo-cristiani il superamento della legge mosaica come strumento di salvezza: è il contrario di quanto afferma Paolo nelle sue Lettere e quanto suggeriscono già i Vangeli canonici. E questo ci ricorda, in maniera evidente, che quella dei Vangeli canonici e di Paolo non è l’unica interpretazione possibile della persona di Gesù, ma che alle origini del cristianesimo potevano coesistere interpretazioni diverse: quella di Paolo e quella di Giacomo, ovvero quella dei Vangeli canonici e quella dei Vangeli giudeo-cristiani.
E questa osservazione ci introduce nel nostro terzo problema, costituito dalla considerazione del carattere ebraico di Gesù come elemento caratterizzante della sua azione e predicazione. Questa considerazione è la vera novità della ricerca attuale sul Gesù storico rispetto alle due precedenti. E deve essere ritenuta una acquisizione fondamentale. Il Gesù storico è un Gesù ebreo, e non può essere veramente compreso senza un suo totale radicamento nella tradizione giudaica.
Ma, anche qui, è impossibile non porre una domanda agli autori della ricerca attuale sul Gesù storico. Il carattere ebreo di Gesù, la convinzione, quindi, che egli non possa essere compreso senza inserirlo decisamente nella tradizione giudaica nella quale vive, significano che l’azione e la predicazione di Gesù non si sono poste in nessun modo in contrasto col giudaismo del suo tempo, e che non c’è nulla, quindi, in esse in cui possano riconoscersi le radici della successiva separazione dei cristiani dalla loro matrice giudaica? A me sembra molto difficile sostenerlo.
Il contrasto di Gesù con i Farisei, che costituivano pur sempre la corrente spirituale più influente del tempo, può essere stato accentuato dalla tradizione evangelica, ma è un dato reale della sua predicazione.
Gesù era certamente un giudeo osservante, che frequentava il servizio della sinagoga e partecipava al culto del tempio. Ma nell’osservanza della legge mosaica ha introdotto uno spirito che non era semplicemente quello farisaico allora dominante. Quando afferma che «non c’è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo, ma è quello che esce dall'’uomo che contamina l'uomo» (Mc. 7,15), Gesù rimane indubbiamente nei limiti di una interpretazione della legge mosaica. Ma questa interpretazione va oltre le discussioni allora frequenti tra Farisei e Sadducei, perché mette in questione la stessa ragion d’essere di quelle norme di purità cultuali la cui osservanza i Farisei cercavano di estendere a tutta la popolazione e che erano, comunque, sentite come parte essenziale della tradizione.
La purità cultuale è interamente sottoposta alla purezza morale. E quando afferma che «il sabato è stato fatto per l'uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27), certamente Gesù fornisce una interpretazione della norma del sabato.
Ma questa interpretazione mette in discussione il valore formale stesso della legge. Al di là del suo aspetto formale, all’uomo viene riconosciuto il diritto di valutare il contenuto della legge. La legge va infatti osservata se è per il bene dell'uomo. Un Fariseo non poteva ammettere un principio del genere. E difficilmente poteva farlo ogni altro Giudeo, per il quale la legge è comunque espressione della volontà di Dio. Affermazioni del genere ponevano in questione l’identità stessa di Israele, saldamente fondata sulla osservanza rigorosa della legge mosaica.
L'atteggiamento di Gesti nei confronti della legge non era quindi quello di un comune maestro di Israele e non poteva non suscitare la disapprovazione dei Farisei; una disapprovazione che la frequentazione che Gesù aveva con persone di dubbia moralità, come pubblicani e prostitute, non poteva che rendere più forte.
Ma c'era un altro motivo di contrasto, ancora più acuto. Nel fare quelle affermazioni Gesù pretendeva di avere un’autorità nei confronti della tradizione che andava molto al di là di quella di un comune maestro. È l’autorità che si esprime nella maniera più radicale nelle famose antitesi del Discorso della Montagna: «Avete udito che è stato detto agli antichi... Ma io vi dico», comunque si interpretino queste parole. Ed è l’autorità che, secondo tutta la tradizione evangelica, colpiva particolarmente gli ascoltatori di Gesù. Secondo questi, infatti, Gesù non parlava come gli altri maestri, ma appunto come «uno che ha autorità».
È questa autorità, come si manifesta in tutta l’azione e la predicazione di Gesù, che fa porre inevitabilmente il problema della sua pretesa messianica. Dove, in realtà, non è importante tanto se Gesù abbia mai affermato in maniera esplicita di essere il Messia, quanto il ruolo che ha preteso di svolgere nell’azione di Dio verso Israele. Ci sono parole e azioni di Gesù che rivelano infatti una pretesa del tutto eccezionale.
Oltre le affermazioni già citate nei confronti della legge mosaica, vanno certamente interpretate in questo modo le affermazioni di Gesù sulla presenza del regno nella sua attività miracolosa, il suo rapporto assolutamente particolare col Padre celeste, il suo ingresso almeno allusivamente messianico in Gerusalemme.
È difficile definire questa pretesa di Gesù altrimenti che messianica. E io credo che proprio questa pretesa, inconcepibile da parte di un uomo che non aveva alcuna delle prerogative richieste al Messia dalla tradizione, abbia costituito il motivo giuridico della condanna di Gesù da parte del sinedrio e che ha costituito la base per quella da parte di Pilato.
Questa condanna, l’apparente paradosso di un’autorità giudaica che rifiuta un profeta per aver preteso di essere quel Messia che il popolo attendeva, non può essere considerata semplicemente come l’arbitrio di una corte pregiudizialmente ostile, ma mostra che le autorità giudaiche, sommi sacerdoti e capi dei Farisei, vedevano nella predicazione di Gesù un pericolo reale per l’identità religiosa di Israele. Il conflitto di Gesù con le autorità giudaiche del suo tempo c’è stato e non è stato soltanto inventato dai Vangeli canonici.
Ma, come ho scritto in Il cristianesimo ha tradito Gesù?, «il conflitto poteva portare non soltanto alla condanna di Gesù ma anche all'’adesione alla sua predicazione. E l’adesione a sua volta poteva rimanere un fenomeno interno al mondo giudaico o poteva determinare lentamente il distacco da esso. Non accogliendo nel Nuovo Testamento i Vangeli giudeo-cristiani e riconoscendosi più nel pensiero di Paolo che in quello di Giacomo, la Chiesa non ha fatto una scelta storica, ma una scelta teologica.
Ha ritenuto, dal punto di vista della sua fede in Cristo come Signore e Messia, che l'interpretazione dei Vangeli canonici e di Paolo rispecchiasse in maniera più autentica la figura e l’insegnamento di Gesù».