Il film si inserisce nel filone Gibsoniano nel quale si ritrova anche Apocalypto. Una specie di "realismo storico" Gibsoniano.
La vicenda narrata è molto simile a un episodio riportato da Giuseppe Flavio nella sua Guerra Giudaica (Da: "Guerra Giudaica", di Giuseppe Flavio. Libro VI, cap.5 - 300/309):
“Quattro anni prima che scoppiasse la guerra (che portò alla distruzione di Gerusalemme (66-70 d.C.)), quando la città era al culmine della pace e della prosperità, un tale Yeshua Ben Anania (Gesù figlio di Anania), un rozzo contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli per il Dio e all'improvviso cominciò a gridare nel tempio: “Una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero”.
Giorno e notte si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole, e alla fine alcuni dei capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli inflissero molte battiture.
Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a ripetere il suo ritornello.
Allora i capi, ritenendo che quell'uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi al governatore romano Albino. Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo scoperto le ossa, non ebbe un'implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: “Povera Gerusalemme!”.
Quando Albino, che era il governatore, gli fece domandare chi fosse, donde provenisse e perché lanciasse quella lamentazione, egli non rispose, ma continuò a compiangere il destino della città finché Albino sentenziò che si trattava di pazzia e lo lasciò andare.”
Giuseppe Flavio riporta un fatto che rivela che il comportamento dei sinedriti e i motivi che lo sottendono non sembrano molto diversi dal caso di Gesù di Nazaret.
Gli Ebrei, e in particolar modo quelli del I e II sec. d.C., aspettavano espressamente il Messia (inteso come Re-guerriero che avrebbe liberato gli ebrei dalla dominazione Romana), tanto che saranno molti dopo Gesù a definirsi Messia: il “falso profeta egiziano” nella metà degli anni 50 (citato da Giuseppe Flavio e anche negli Atti), Gesù Ben Anania nlla metà degli anni 60 (citato da Giuseppe Flavio nel testo riportato sopra), fino al Simon bar Kokheba (diventato dopo la sconfitta militare Simon Bar Koseba “figlio della menzogna”) capo della rivolta contro i Romani del 132-135.
Giuseppe Flavio ricorda che in occasione della riduzione a provincia della Giudea (avvenuta nel 6 d.C.) fu mandato da Roma il prefetto Coponio con tutti i poteri, «compreso quello di uccidere» (lo "jus gladii", Bell. 11,117; Ant. 18,2). Situazione che trova conferma anche presso altre province, dove è vero che Roma lasciava una certa autonomia politica, ma è anche vero che manteneva un certo controllo della situazione, riservandosi tra l'altro il potere di condannare a morte.
Anche il Talmud (di Gerusalemme e di Babilonia) afferma che durante l'epoca di Gesù i Giudei furono privati del giudizio di vita e di morte (j. Sanh. 1,18a; 7,24b; b. Sanh. 41a), e lo riacquistarono soltanto allo scoppio della prima guerra giudaica.
Quindi, al tempo di Gesù di Nazareth, il Sinedrio non aveva la potestas gladii. E quindi per mettere a morte Gusù di Nazaret occorreva la condanna a morte da parte dei romani.
Ed è proprio di questo che parla il film di Mel Gibson.
Considerazioni storiche
Da un punto di vista storico, la vicenda narrata da Mel Gibson è solo il racconto di uno dei tanti “regolamenti di conti interno” tra la gerarchia dominante e i vari profeti (veri o falsi che siano stati). Non esiste - quindi - uno “specifico caso Gesù” e una “specifica colpa degli ebrei”, in questo senso. Se caliamo la vicenda all’interno di quel contesto storico rileviamo che la gerarchia religiosa ebraica “temeva” i Romani (che erano degli occupanti) e – a meno di non avere tra le mani un “messia” che corrispondesse ai loro requisiti – consegnava ben volentieri ai Romani qualunque “falso messia” che avesse potuto causare “disordini” o avesse messo in discussione la loro “autorità”, senza garantire la vittoria politico-militare.
E non c’è dubbio che questo Gesù di Nazareth stava diventando un problema, sia di ordine “teologico” che di ordine “pubblico”; quindi lo consegnarono ai romani perchè lo eliminassero.
Ripeto: da un punto di vista storico e analizzando la vicenda all’interno di quel contesto storico, non esiste, nè potrebbe esistere, alcuna specifica “colpa da imputare agli ebrei”. La gerarchia religiosa attendeva un “messia” che fosse Re-guerriero potente e condottiero e che liberasse gli ebrei dal giogo Romano. Di questo “Messia” Gesù, che metteva in discussione la loro autorità e la Legge, che era uno straccione che diceva “amate i vostri nemici” (quindi anche i Romani) e che causava disordini in città, volevano sbarazzarsene.
Pilato lo fece “flagellare” - pratica assai diffusa all’epoca - perchè non trovava in lui alcun motivo per condannarlo a morte. La “flagellazione” era una punizione che, secondo lui, avrebbe accontentato le gerarchie religiose ebraiche; Pilato lo fece flagellare “per dargli una lezione” con l’intento poi di liberarlo.
Da un punto di vista “storico” la flagellazione era una “punizione” assai diffusa. Molto dolorosa e molto “sanguinaria”. Il “flagello romano” detto “flagrum” era costituito da un manico flessibile, munito di due o tre strisce di cuoio, appesantite all’estremità da frammenti d’osso o di piombo. Sulla pelle aveva effetti devastanti, tanto che si poteva uccidere a colpi di “flagello”.
I vangeli narrano che le gerarchie religiose ebraiche insistettero perchè venisse giustiziato. Come è del tutto facile prevedere. Non c’è in questo nulla di strano o di eclatante. E’ una cosa che, letta da un punto di vista “storico”, è del tutto comprensibile. Direi inevitabile e del tutto normale. Nè c’è molto da stupirsi nemmeno circa “il processo di piazza”. Stando a quello che dicono i vangeli, Gesù non era un politico e, durante la sua permanenza a Gerusalemme, non si preoccupò di coltivare “alleanze” influenti. Era un uomo che si rivolgeva agli ultimi, i suoi discepoli erano quattro straccioni. E’ del tutto ovvio che, di fronte a un processo “politico” orchestrato dalle massime autorità, la “gente normale” si sia dileguata. Calandoci in quel contesto...chi, appartenendo alla “plebe”, si sarebbe opposto a una volontà che proveniva direttamente dal Sinedrio? E’, quindi, del tutto normale che quelli che lo avevano acclamato al suo ingresso in Gerusalemme, si siano poi dileguati davanti al potere violento del Sinedrio, delle guardie e dei soldati Romani.
E la crocifissione?
La crocifissione era, al tempo dei romani, una modalità di esecuzione della pena capitale e, al tempo stesso, una tortura terribile. La pena della crocifissione era tanto atroce e umiliante che non poteva essere comminata a un cittadino romano. Era applicata agli schiavi, ai sovversivi e agli stranieri.
La morte del condannato avveniva per il soffocamento causato dalla compressione del costato e a tale scopo, spesso, le gambe del condannato venivano spezzate con una mazza o un martello.
Normalmente sul luogo delle crocifissioni c'era già, saldamente piantato per terra, il palo verticale (lo stipes). Il condannato si avviava al luogo dell'esecuzione portando sulle sue spalle il palo orizzontale, detto in latino patibulum (da qui la parola italiana "patibolo"), al quale sarebbe stato confisso. Il patibulum aveva normalmente a metà un foro con cui veniva infisso sullo stipes. Pare che il patibulum fosse legato alle braccia del condannato, e in questo modo (se cadeva durante il tragitto) avrebbe urtato il suolo con la faccia.
Per inchiodare gli arti superiori, i carnefici sapevano bene che conficcando il chiodo nel palmo della mano, il peso del corpo avrebbe immediatamente lacerato la mano stessa. Perciò il chiodo veniva posto in un punto del polso dove la struttura articolare riesce ad esercitare lo sforzo di sostenere il peso del condannato. L'agonia del condannato era abbastanza lenta, potendo durare ore o anche molti giorni.
Non tutti sono unanimi sulle cause della morte: sopravveniva per collasso cardiocircolatorio (dovuto anche all'ipovolemia causata dalla perdita di sangue e di liquidi) o asfissia. Infatti, per respirare, il condannato doveva fare leva sulle gambe; quando, per la stanchezza, o per il freddo, o per il dissanguamento, il condannato non poteva più reggersi sulle gambe, rimaneva penzoloni sulle braccia, con conseguente difficoltà per respirare oppure tutti questi movimenti dolorosissimi portavano al cedimento del cuore.
I carnefici lo sapevano, e quando dovevano accelerare la morte rompevano con un bastone le gambe del condannato, in maniera che il soffocamento arrivasse in breve.
Appare del tutto ovvio, quindi, che la “passione di Gesù”, identica alla “passione” di migliaia e migliaia di altri condannati, fu un avvenimento piuttosto cruento, sadico e sanguinario. Ma quelli erano i tempi, le cose funzionavano così e i romani non ci andavano troppo per il sottile.
Considerazioni “teologiche” e "scientifiche"
La domanda mi sorge spontanea: che diavolo puo' significare un simile "fatto", ammesso e non concesso che sia vero?
I vangeli raccontano la passione e la morte di Gesù in modo molto sobrio. Non c’è “nessuna esaltazione ed ostentazione” del dolore. Questo è un primo punto.
Nel cristianesimo “la sofferenza” non è “il mezzo necessario e indispensabile per espiare la colpa”. Non c’è quindi alcuna giustificazione teologica al “masochismo” e al "sadismo", al dolore “inflitto” o “autoinflitto”. La “ricerca consapevole del dolore” come punizione o autopunizione e come “via per l’espiazione dei peccati” è una deviazione malata che nasce solo da menti malate. Il cocnetto di "punizione" o di "castigo" a causa del peccato e della colpa è una degenerazione malata che non ha nulla a che vedere col cristianesimo. Col cristianesimo non c'entra nulla nemmeno il concetto di "colpa" così come viene comunemente inteso.
Vedere negli altri dei "peccatori" da punire perchè hanno commesso una colpa è una degenerazione malata che col cristianesimo non c'entra nulla, ma è una patologia da curare in un centro di igiene mentale.
C’è piuttosto un’altra prospettiva. Il “dolore” viene vissuto come “sacrificio d’amore” quando questo viene causato da altri per impedire di essere semplicemente se stessi. Se cioè, per essere fedeli a se stessi, si vive una situazione di dolore “imposto da una violenza esterna”, questo viene “offerto come sacrificio d’amore”. Esattamente come ha fatto Gesù, che ha visto nella sua “passione” un sacrificio d’amore.
Gesù non “ha cercato” la morte. Nè “ha cercato” la sofferenza. Gesù non è stato "punito" per i nostri peccati. E non ha cercato "la punizione" per i nostri peccati. Semplicemente, l’essere fedele a se stesso ha fatto in modo che altri “usassero violenza per fermarlo”. E il dolore scaturito da questa violenza subita è stato offerto “come sacrificio di amore”.
Gesù, prima di essere ucciso diceva: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Ma il “dare la vita” non è cercato, non è voluto. Il cristianesimo non inneggia nè istiga “al masochismo”. Il cristianesimo afferma che “per essere fedeli a se stessi fino in fondo occorre essere pronti a tutto”, anche al sacrificio estremo.
Seconda questione: la colpa. O, come viene comunemento chiamato: il peccato.
Il cristianesimo dice che “Gesù prende su di sè i peccati del mondo, vince il peccato e ci salva”. Ma che significa questo? Che significa concretamente? Che senso ha (se ce l'ha)?
Che significa peccatori? Che significa che “tutti sono peccatori”?
Puo’ essere “peccatore” un bimbo di 2 mesi?
Che senso ha nella realtà concreta dell'uomo questo linguaggio?
I malati di mente, e molti sono presenti anche nelle chiese (in tutte le chiese), identificano il “peccato” con: “fare qualcosa che è contrario a una morale”. E la morale, ovviamente, la decidono loro...i malati di mente.
Se questo fosse vero...cioè se il peccato fosse una azione contro “la morale”, come si potrebbe giustificare il concetto: “tutti sono peccatori, compresi i bambini”.
Come puo’ un bambino “agire contro la morale”, e quindi peccare?
E il peccato originale? Che cosa è il cosiddetto “peccato originale”?
Quale motivo razionale potrebbe sostenere l’idea che dice: “tutti noi siamo in colpa a causa del peccato originale di Adamo ed Eva”.
Dovrei forse io essere responsabile di un fatto accaduto migliaia di anni fa....e che nessuno sa’ se è veramente accaduto?
Queste ovviamente sono tutte cazzate.
Che cosa è dunque il peccato?
Peccato=status legato al nostro stadio evolutivo. Legato cioè ai nostri meccanismi biologici, istintivi e cerebrali.
Il “concetto di peccato” non è affatto legato nè alla deviazione rispetto a una morale, nè, tantomeno, a quello che hanno fatto Adamo ed Eva.
Il peccato è sinonimo di “status dovuto al nostro stadio evolutivo, cioè al nostro essere homo sapiens”.
Il peccato, quindi, non è qualcosa di “negativo”. Associare il “peccato” a qualcosa di “negativo” è una semplificazione assurda.
Peccato=status
Il peccato non è colpa. Il peccato è uno status.
E proprio perchè siamo tutti individui della specie “homo sapiens”, e quindi abbiamo tutti lo stesso “status”, siamo tutti “peccatori”. Anche i bambini. E non perchè abbiamo commesso delle colpe. O perchè abbiamo deviato da una legge morale.
Al "concetto di peccato" non è legato nè una sensazione "negativa" e di "giudizio morale", nè il concetto di “colpa”, nè quello di “espiazione” e nè quello del “dolore” che servirebbe come espiazione.
Tutti questi collegamenti sono assolutamente stronzate inventate da una gerarchia religiosa che pretende di imporre la sua morale e la vuole imporre facendo leva sul senso di colpa.
Il concetto di “peccato” è legato allo “status” del nostro stadio evolutivo. Che è molto “scimmia”, cioè ancora troppo legato ai meccanismi istintivi ed egoistici degli animali dai quali proveniamo e ancora poco proteso verso una dimensione più trascendente governata dall’”amore”.
Meccanismi egoistici intesi come “meccanismi biologici messi in atto dal nostro cervello per alimentare e sostenere noi come individuo”.
Gesù, quindi, è come se avesse detto: “il mio sacrificio è per poter evolvere verso uno stadio evolutivo superiore, per superare i limiti imposti dai nostri meccanismi biologici che sono per molti aspetti legati ai meccanismi di base di ogni specie animale. Cioè l’egoismo inteso come autoconservazione. E questi meccanismi sono legati al nostro status di specie. Per evolverci, come specie, dobbiamo andare oltre i limiti che il nostro corpo biologico e il nostro cervello ci impongono”.
Questa cosa è tanto vera perchè l’avrebbe vissuta lui sulla sua pelle. Entrando - cioè - fino in fondo nella violenza che ha subito, vivendo l’amore per i suoi carnefici, e superando l’istinto animale che, di fronte alla morte, cerca di “salvarsi” e “autoconservarsi”. Gesù, nella sua passione, avrebbe agito per superare i limiti del “nostro cervello” che non è in grado di concepire l’amore vero. Ma “intende” l’amore come soddisfacimento di un nostro bisogno e quindi come l’ennesima manifestazione dell’egoismo “di ogni specie animale”.
In questo senso, dunque:
Peccato=status legato al nostro stadio evolutivo
Tutti siamo peccatori perchè tutti apparteniamo allo stesso stadio evolutivo (siamo tutti individui homo sapiens, anche i bambini)
Il peccato orginale: Proprio perchè il concetto di peccato è il concetto del nostro stadio evolutivo e dei suoi limiti strutturali e cerebrali, il peccato originale coincide con l’avvento del primo individuo di Homo Sapiens. Ed è quindi ovvio che la “colpa” del primo individuo è la nostra stessa “colpa”, cioè noi portiamo dentro di noi le stesse caratteristiche biologiche e cerebrali del primo homo sapiens. E, quindi, gli stessi limiti.
Gesù “vince il peccato”: Gesù si propone come il primo individuo di uno stadio evolutivo superiore. Che “vince il peccato” nel senso che supera i limiti imposti dalla biologia e dalla struttura cerebrale dell’homo sapiens. E’ come se Gesù fosse il capostipite di una nuova specie. Nessun individuo appartenente alla specie homo sapiens, infatti, potrebbe uscire dalla propria tomba sulle propie gambe.