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Io di fronte a me

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Massimo Vaj
Massimo Vaj
Viandante Storico
Viandante Storico
Quella ripidissima scala, che conduceva alla stanza della musica pregata del Monkey Temple, mi stava spezzando le ginocchia e sui quadricipiti ci potevo friggere le uova.
—Fanculo a tutte le religioni del mondo!—
riflettevo mentre salivo, incazzato con le facce demoniache di due statue leonine che mi osservavano dalla sua cima irraggiungibile, e che erano per me la prova della truffa salmodiata che faceva leva sull'atavica paura dell'ignoto. Ero un anarchico allora, con un'idea della libertà che non è mai cambiata, in tutti questi anni di tentativi di piantargli dentro le unghie. Solo che la Libertà Assoluta io la concepivo come fosse relativa e immediatamente applicabile alla mia vita.
Vivevo lì, un po' lontano da Swayambhu, in un loculo di fango senza mobili, con una stuoia in terra che spruzzavo ogni tanto di DDT cancerogeno, intuendo lo sguardo in aspettativa delle pulci, a miliardi e abituate al veleno, che speravano fossi io a morire per primo, così da potermi divorare senza fretta.
In Italia ero un disegnatore tecnico, al mio esordio, nel campo dei radar e degli apparecchi di telecomunicazione prodotti dalla Face Standard e ITT Americana, poi all'Alfa Romeo di Milano, dove disegnavo modifiche alle auto e codificavo nuovi disegni, trafficando con così tanti numeri che non mi licenziai neppure, fuggii e basta. La mia fu una vera fuga dai numeri, che allora detestavo, perché a me piace ancora disegnare. Io sono un disegnatore nato, e ora anche un apprendista studioso di matematica.
In Nepal, invece, mi guadagnavo da vivere spacciando hashish e marijuana ai turisti, da sotto ai miei lunghi capelli lisci che parevano ricci per i pidocchi che li filavano impazienti e voraci, e anche perché non avevo il coraggio di lavarmi, gettandomi nudo sotto al getto enorme che sboccava da un drago in pietra, in una vasca di cemento e pietre, enorme e gelida, piena di gente in fila sottozero (era inverno), che rotolava in terra per la violenza del getto sotto al quale passavano correndo; un getto d'acqua che tentava di lavarti via anche la vita. Così sollevavo il ghiaccio sulla superficie di una botte che raccoglieva l'acqua piovana, a lato della cuccia dove dormivo, che era culla di larve ibernate di esserini indecifrabili e mi sciacquavo appena, col turbidume marcescente che ondeggiava sotto.
Avevo stretto amicizia con un francese di nome Patrick, più mingherlino di me e più sveglio, col quale conversavo in Inglese perché il Francese l'ho imparato dopo. Trafficavamo insieme e ci stravolgevamo con lo spirito di ragazzini che giocano. Lui era di Parigi, un po' più intellettualoide di me che tutti consideravano un violento che litigava con tutti, a causa di qualche rissa avuta coi Nepalesi, i quali non sono miti e accomodanti come gli Indiani. Io ero di Quarto Oggiaro e lì picchiarsi era normale se non si voleva essere messi brutalmente sotto. Ero pure un karateka allenato, per avere appreso questa arte in anni di lavoro sul tatami, da ragazzino, ma non ne rispettavo rigorosamente i principi di pace e serenità. Per questi fatti eravamo spesso in polemica e lui aveva la deprecabile convinzione che fosse suo dovere abbandonarmi, da solo, in mezzo alle risse. E quando si traffica, non coi numeri, i litigi ci sono. Qualche tempo più tardi queste mie attitudini mi condussero dritto al carcere di Katmandhu.
Comunque quel giorno eravamo tranquilli e seduti in un chai shop a vendere marijuana, quando un ragazzone Americano ci mostrò due strisce di fogli spessi, assorbenti e bianchi, ripiegati a fisarmonica, e ci disse che erano trip troppo forti per lui anche dividendone ognuno in quattro parti. Ce li vendette a un prezzo bassissimo che odorava di truffa, ma se davvero lo fosse stata l'avremmo ritrovato facilmente, perché era straordinariamente alto e con l'aria da borghese molto perbene, una rarità per chi non scalava le montagne. Lo pagammo e ingoiammo l'ultimo della fila, quello piegato d’avanzo e male. Il più grosso di tutti...

Patrick era più esperto di me nei viaggi psichedelici, aveva fatto molti più trip del mio centinaio ed era psichicamente, all'apparenza, più avvezzo a non farsi trascinare dalle emozioni violente. Io invece avevo un candore che mortificava la stupidità, e tantissima voglia di vivere capendo il mondo, ma nessuna capacità o inclinazione personale poteva attutire l’onda brutale che ci stava investendo.
L'hashish (charas ricavato dallo sfregamento manuale delle infiorescenze della marijuana) a quel tempo era ancora di ottima qualità, in Nepal, ed era stato legale fino all'anno prima. Venduto in appositi baracchini per strada, faceva parte della cultura atavica di quei popoli, e nessuno si scandalizzava vedendo qualcuno in difficoltà, con manifestazioni fuori controllo che non entravano di precisione nel canone della moderazione. Per questo, quando dopo dieci minuti dall'assunzione io e Patrick crollammo con la testa sul tavolo, nessuno si preoccupò troppo. Quel “chai shop” (locale del tè) era un localino poco più grande di un capannone di paglia; era gestito da due fratelli Tibetani che ci conoscevano bene, coi quali discutevamo di tutto e che, per le mie idee di sinistra, già avevano tentato di strozzarmi una volta che dissi essere il Dalai Lama un fascista.
Io e Patrick capimmo, con apprensione, che le ragioni dell'Americano che ci aveva venduto l'LSD erano fin troppo giustificate, e che non ci aveva mentito affatto dicendoci che, anche se presi a un quartino per volta, erano esageratamente forti.

Dopo solo un quarto d'ora le prime vampate d’energia diventarono una vibrazione insostenibile, lo sguardo si fece appannato e si spense nel buio più nero: eravamo diventati ciechi. Disperatamente, uno di fronte all'altro, non potevamo parlarci né toccarci e neppure muovere le teste che si erano appiccicate con le guance al piano del tavolo. Io non potevo vederlo, ma sapevo che lui provava la stessa mia paura di non tornare più a vedere. Avrei voluto farmi coraggio e fargli forza, sapendo che era così anche per lui, ma non potevamo fare altro che lasciarci andare alla nostra incoscienza criminale e all'effetto dell'acido, che eccedeva in tutto, tranne che in comprensione delle nostre debolezze.
Con lo scivolare di un tempo che sembrava immobile, alla prima ondata di terrore si sostituirono sensazioni così estreme che anche la paura della cecità scomparve, e si dileguò in un nero profondamente lontano e solido, nel quale il pensiero osservava stupito una miriade di spirali colorate, stelle rotanti di quel cielo oscuro.
Spirali che vorticavano e si attorcigliavano salendo, come stessero evaporando. Il mio pensare diventò una voce lontana e quasi non più mia, perché la mia individualità era scomparsa, esplosa nella paura.
—Chi sono, cosa sono senza il mio io?—
chiesi angosciato a quel buio, desiderando che dietro di lui qualcuno potesse rispondermi.
—Sto per morire?—
gridai ancora
—È questo il morire?—
—Chi sei tu che parli col mio pensare?—
mi chiesi, senza più riconoscermi
La mia preoccupazione non poteva coinvolgere l'idea di un Dio, non ero un bambino che credeva, io credevo solo a quello che mi si presentava davanti e ora, davanti, non avevo un Dio, ma qualche parte di me che non avevo mai conosciuto.
E volevo conoscerla o, se proprio non fosse stato possibile, almeno capire come fare a parlarci senza dover pagare quel mostruoso prezzo che mi aveva incastrato della disperazione.

Noi tutti siamo consapevoli della nostra individualità, e sappiamo che lei è unica, anche quando abbiamo un gemello o vediamo che parte di questa individualità pare essere ricalcata su quella di uno dei nostri genitori, o sul miscuglio di alcune caratteristiche di entrambi. Mai ci sfiora il dubbio che, nel nostro essere quella unicità, forse totalizzante, ci possa sfuggire un qualche suo lato, magari proprio il più importante.
In quel tremendo e lungo attimo io quella parte l'avevo sopra di me, lontana ma evidente. La cosa che mi colpiva maggiormente era che sentivo di essere quella parte prima più che ogni altra parte di me, e che quello era l'aspetto di me non responsabile delle mie azioni, ma capace di giudicarle.
Ero troppo sconvolto per essere ancora spaventato, e stavo come sta un gabbiano con le ali rotte, che galleggia tra i flutti di una tempesta, sballottato tra scogli neri e taglienti.
Quelle spirali, che in quel buio roteavano di colori si acquietarono, lasciando quel vuoto nero per ricomporsi in immagini che si distorcevano davanti agli occhi i quali, a fatica, riassorbivano di nuovo la luce. Per prima cosa cercai Patrick e mi accorsi che lui cercava me.
Senza poter parlare né toccarci stavamo lì, come bambini appena nati e già quasi morti.
Si sedette al nostro tavolo un tipo con gli occhiali quadrati a fondo di bottiglia, antipatico e supponente, e ci disse di non farla tanto lunga che un acido non aveva mai ucciso nessuno, insistendo che ci alzassimo e andassimo a fare un giro per i terrazzamenti di riso asciutti, lì fuori, a riprenderci. Non so come potesse sapere che era un acido che c'impastava a quel tavolo e non, invece, morfina, ma certo non poteva immaginare in che situazione ci trovassimo. Al nostro silenzio ci scosse infastidito e, alla fine e finalmente, se ne andò insultandoci.
Riprendere un poco di padronanza motoria non fu facile e richiese forse un paio d'ore, ma è impossibile determinare con precisione il tempo trascorso in acido, quando l'unico riferimento sei tu, il tuo interno e, insieme a loro, tutto il resto che ondeggia gommoso.
Riusciti finalmente ad alzare il capo dal tavolo guardammo le immagini davanti a noi fluttuare in gelatinose volute opache, che si scomponevano e ricomponevano in bolle, riflettenti le stesse immagini rimpicciolite di quel locale che si deformava in loro, tante volte quante erano loro. I suoni persero la vibrazione, tenebrosa ma comprensibile, avuta per qualche momento, e cominciarono a comportarsi come le bolle, in una folle sintonia armonica. Immagini e suoni si fondevano in bulbi sonori incomprensibili, simili al rincorrersi dell'acqua che sgorga da una fontana. Si componeva, in quello scorrere, musica tonda, come echi di vibrazioni che mutavano in un chiacchiericcio chioccoso, occupando il posto di ogni altra sensazione.
La meraviglia era totale, moltiplicata dal replicarsi indefinito delle immagini che correvano, frammentandosi in fotogrammi, rapidi nel tracciare scie di cloni di sé, in sfere sonore che giravano, spiraleggiando nell'aria densa.
Si sedette vicino a noi un tipo alto e bello, con l'aria d’essere Austriaco, il viso incorniciato da capelli castani a lunghi boccoli fitti e aristocratici il quale, essendosi accorto del nostro essere in una visuale psichedelica, ci sorrise con simpatia comunicandoci che anche lui sapeva. Ci fece un discorso simile a, o forse proprio, una formula matematica che io non capii, ma che pensai dovesse rappresentare il mordersi la coda della ciclicità che non voleva concedere vie d'uscita a se stessa.
Il sole era già alto quando uscimmo dal locale, e la luce abbagliante parve metterci al centro dell'attenzione di un nugolo di bambini che conoscevamo per averli visti scorrazzare spesso lì intorno. Quei bimbi si resero subito conto della nostra particolare vulnerabilità. L'acido amplifica quello che si è già, e quando l'ego è rimpicciolito in quella proporzione due sono i destini che si appresta a subire, specchiando e amplificando quello che succede anche nell'essere della propria normalità: o si chiude nella difensiva sofferenza della solitudine, o si apre alla generosità suicida. Non ci sono vie di mezzo quando il tumulto dell'anima prende il sopravvento. Io mi persi nel secondo fato e iniziai a regalare prima gli spiccioli, e poi le rupie di carta a quei folletti gioiosi, immagine della mia allegria senza scampo.
Patrick mi guardava sorridendo imbarazzato, lui non sapeva esattamente quanti soldi avessi, ma erano pochi, circa trecento rupie, l'equivalente di ventimila lire di allora, come duecento euro di oggi. Un lampo di preveggenza mi disse che stavo mettendomi nella situazione in cui si trovavano quei bambini, ma non riuscivo a smettere di essere generoso.
Attratta da quella calca di bambini, si avvicinò Carlotta.
Era una ragazza Italiana, delle parti di Torino, che avevo conosciuto a Kabul in una pleasure room (leggesi fumeria), e mi aveva raccontato la sua tristissima vicenda che l'aveva spinta a fuggire in Oriente: suo marito era finito in galera per spaccio di stupefacenti e lei aveva, nel contempo, perso il suo bambino che le era morto in una di quelle apnee nel sonno che affliggono i neonati. Disperata e in balia di una grave patologia depressiva era partita a casaccio, e raccontava la sua storia a chiunque fosse disponibile a stare un poco con lei ad ascoltare.
Carlotta era una bionda naturale, con lunghi capelli disordinati in riccioli lunghi, stretti da perline conchiglie e ninnoli dei più svariati, che avevano trasformato la sua folta chioma in una giungla tintinnante, la cui gioia contrastava tristemente con stati d'animo che non erano attutiti nemmeno dai sogni.
A Katmandhu la conoscevano tutti perché, nel suo continuo peggiorare, era come impazzita e urlava isterica contro tutto e tutti. Non aveva più i documenti, che le avevano rubato insieme ai pochi soldi che aveva e stava lì, senza visto, a urlare disperazione.
In questo il Nepal è profondamente dissimile dall'Italia, qui la polizia ti porterebbe in qualche Centro d'accoglienza o casa famiglia dove, anche nel calore di persone affabili ti avrebbero comunque, e forse anche giustamente, non posso dire quanto, privato della libertà.
In Nepal no, lì dove si finisce in galera per poco, anche per un permesso di soggiorno scaduto da due ore, nessuno le faceva nulla. I Nepalesi sanno che dalla pazzia esce un io diverso e indifeso, e la considerano un tocco di Dio che porta con sé una necessità d'aiuto quindi, quando stai male tutti ti aiutano, ti ospitano a casa coi loro bambini anche se urli, ti vestono, ti nutrono, fai la spesa gratis ai mercati, sbraiti davanti ai poliziotti e loro si girano come se la loro attenzione fosse richiamata altrove. Questo è come fosse un prolungamento della loro consapevolezza religiosa, questa è la comprensione della sofferenza altrui. Ho avuto molti esempi di queste storie bellissime d'accoglienza io che, con i Nepalesi, popolo orgoglioso e a volte irascibile col quale ho avuto più di molti problemi, non vado proprio d'accordo.
Stavo dicendo che, mentre i bambini mi circondavano di manine allungate desiderose di spiccioli, arrivò Carlotta. Quando si è in acido la pazzia degli altri non pare così lontana dalla propria, quindi le sorrisi e le chiesi se poteva tenermi i soldi, perché io non potevo più gestirli. Lei, che erano mesi che non ne toccava, acconsentì senza meravigliarsi, li intascò e se ne andò dove non sapeva nemmeno lei.
Finalmente liberato da quel peso m'incamminai, con Patrick, verso dove non sapevamo nemmeno noi.

Benché la meraviglia o il terrore, nella dimensione psichedelica siano totali, e una nuvola possa sembrare una chiesa, un drago o il castello di Dracula, e un foruncolo il primo segno di un incipiente tumore o una macchiolina colorata e ridicolmente divertente, non è lo spettacolo esteriore coi suoi arabeschi che costituisce la meraviglia maggiore, o l’incubo peggiore, dell’esperienza allucinatoria.
È il suo effetto sulla coscienza che sconcerta, analogo al rincorrersi del circonvoluto arzigogolio dei pensieri. Effetto che ricalca le forme che riempiono la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto, e che si scambiano continuamente di posto tra loro. L’LSD amplifica e spezzetta, ingigantendoli, o fonde tra loro, rimpicciolendoli, i minuscoli e infimi componenti della realtà che in questa amplificazione, verso l’alto o verso il basso, dentro o fuori, surreali tanto quanto reali, mostrano, in queste interiezioni sì la stessa realtà, ma per vie diverse e in vesti inconsuete, attraverso la correlazione analogica che sussiste tra gli elementi del tutto e la loro somma che dà forma a quel tutto.
Un tutto il quale è sempre maggiore e più vicino alla perfezione di quanto lo sia la somma dei suoi componenti imperfetti.
Derivando necessariamente ogni cosa dallo stesso Principio unico che la genera, irradiandola e dividendosi in questa cosa, ogni elemento del tutto deve essere simbolo del tutto, al grado che gli appartiene e l’acido, coi suoi effetti, non può ovviamente sfuggire a questa legge universale dalla quale è generato lui stesso. Quindi l’effetto dell’allucinogeno rispecchia, a suo modo ma secondo la Legge unica, la realtà e tutti gli aspetti che la realtà mostra, anche i meno evidenti. Come anche avviene, senza l’aggiunta degli effetti psichici dati dagli allucinogeni, nella realtà che tutti, normalmente, conosciamo. Solo che molti di questi aspetti, in acido sono lì, sfrontatamente davanti, anche se ancora non tutti li possono vedere e decodificare, nemmeno con l’aiuto dell’acido. Ma questi predispone l’individuo (mica tutti), coi suoi effetti sconvolgenti sull’io, alla considerazione degli elementi grandiosi o infimi della realtà, scatenando una sequenza, tanto immaginifica quanto solida di pensieri cosmogonici, di carattere universalizzante, che lasciano senza fiato e a volte anche senza raziocinio. In quei modi dilatati e laterali della coscienza l’osservazione di una famigliola che passeggia può ricondurre il pensiero che stava, per esempio, deviando sul tragico, alla riflessione sulla necessità di associazione nel cosmo e il bisogno dell’altro per la sopravvivenza dell’insieme, che lotta col timore per il diverso da sé; oppure dare la netta sensazione che, in questo insieme, ognuno di noi è una componente incompleta, ma altrettanto indispensabile a quell'insieme.
Dalla grande parte al tutto, dal tutto alla piccola parte si mostra, con evidenza, la relazione analogica che lega le diverse realtà che prendono vita dalla stessa e unica esigenza d’amore, della quale è ricamato l’universo intero ma, soprattutto, che disegna l’intenzione sacra della sua unica e trascendente Causa.

Quando la terra sotto ai piedi si deforma e allunga verso il cielo, prendendone il posto e il cielo, per nulla disturbato, scivola sotto, comunicare diventa arduo, oltre che non necessario.
In acido una semplice occhiata parla per ore e la distanza che separa il vedere dal dire, non è più percorribile. Come viaggiatori nell'ignoto di un sogno faticoso ci piegavamo in avanti, nel vento della difficoltà di essere così lontani dalla tranquillità, al punto di non doverne temere le conseguenze.
Si incrociavano gli sguardi di più persone nello stesso istante, leggendone l'indifferenza o le preoccupazioni, e tra una pietra e l'altra del muretto che segnava il sentiero trascorreva l'apparenza di un'ora in pochi secondi, e quegli stessi secondi ridiventavano, subito dopo, lunghi una giornata.
Io e Patrick ci dividemmo più volte e ci incontrammo ancora, con sguardi stupefatti, dentro quel Cosmo diventato familiarmente diverso, dove tutto era vivo e ti osservava arrancare con le tue certezze ridicole. Arrivò la sera rossastra, ma ancora il trip stava salendo quando, normalmente, sarebbe dovuto scendere.
Era certo colpa di un dosaggio fuori misura il cui effetto avrebbe dovuto, prima o poi, esaurirsi.
L'acido lisergico deve essere diviso in singole dosi, dal laboratorio che lo sintetizza, e questo dosaggio è commisurato al grado di purezza della sua sintesi e purificazione chimica, così che solo gli acidi di qualità elevata che derivano dalla clavices purpurea possono essere dosati in quantità massiccia, senza avere conseguenze sgradevoli sull'organismo fisico.
L'insieme delle componenti psichiche, invece… quello è sempre a rischio.
Solo nel culmine di quella notte, stranamente calda e luminosa (era gennaio a milleottocento metri di altitudine e c'era la neve) il cuore riprese padronanza di sé, e il viaggio si stabilizzò nei colori e nei suoni più creativi che avessimo mai visto e udito.
In quei momenti realizzai di non avere più una rupia in tasca, di essere a tredicimila chilometri da casa, al freddo, con Patrick (in quasi totale bolletta pure lui) come unico amico, felice di essere ancora un vedente, arruffato e stupido, ma vivo.
Altri due giorni durò quel trip quando, di solito, dovrebbe scendere dopo un giorno.
Senza dormire, quasi senza mangiare né bere, e con nel cuore e in testa nuove questioni sollevate da quel terribile caos, che andavano ordinate di nuovo, ma non più scopate sotto il tappeto della convenienza bruta, cercavo Carlotta e i miei soldi i quali, ora, per mia necessità erano diventati potenzialmente i suoi.
Fu lei a trovarmi, mi cercava da due giorni e me li rese semplicemente, con un sorriso, preoccupata dall'essersi bevuta un bicchiere di latte pagandolo con loro. Non ricordo nemmeno se la ringraziai, tanto ero emozionato e felice, almeno tanto quanto lo era lei di avermeli resi. Non la rividi mai più, da allora, perché non molto tempo dopo mi ritrovai in una cella di quattro metri quadrati, ma so che della generosità e della bellezza di Carlotta il mondo è pieno, solo che non la si può riconoscere se non nel rischio dell’averne avuto il bisogno.

L'incredibile viaggio nel mio buio non aveva depositato certezze, nella cenere delle sicurezze fasulle che aveva bruciato, ma mi aveva tatuato il sospetto che quella spirale, che permeava quel modo psichedelico di osservare la realtà, fosse più che una modalità ordinante un universo diverso.
Invece che dissuadermi dal riprovarci, l'essere riuscito a sopravvivere a un’esperienza insopportabile mi disponeva a pensare che ce l'avrei fatta ancora, altre volte che si fosse presentata, a sopportare quella fatica terribile pur di avere una qualche possibilità di vedere più chiaro, nel mio buio colorato e misterioso. Continuai per anni a fare trip, spinto da un bisogno di capire che non fu soddisfatto dai trip.
Avevo, destinata a durare poco, ancora tutta la striscia d’assorbenti che avevo comperato dall'Americano e provai, qualche giorno più tardi, ad assumere un quarto di una dose singola allo scopo di capire la proporzione della quantità che avevo preso quella prima volta, con la quantità che si incontra normalmente, quando ci si fa un trip di quelli buoni che ci sono in commercio. Un rosa Pink Floyd, per esempio. Un quartino di quei trip era molto più forte di un Pink Floyd o di un Purple Haze o di una Micropunta nera, o un White California o di un Piramidino in pellicola o un Vulcanino viola ed era paragonabile a un Brown Explosion, che era l'acido più forte che, in Europa, fosse mai stato commercializzato. Quell'ultimo della striscia era il più grosso dei quindici che la componevano, perché risultato di un errore di taglio e piegatura della stessa, e quindi era come se io mi fossi fatto cinque Brown Explosion in una volta sola. Una inimmaginabile follia.
Probabilmente è stato commesso un grave errore di valutazione nella piegatura di quegli assorbenti. L'acido lisergico si misura in microgrammi che sono, ogni microgrammo, la milionesima parte di un grammo, e la dose medio-alta è costituita da circa duecentocinquanta microgrammi. Quindi mille microgrammi sono quattro trip forti, diecimila sono quaranta, centomila sono quattrocento e da un milione, equivalente a un grammo, se ne ricavano quattromila. È quindi facile far casino nel dosaggio, corrispondente al modo di piegatura delle strisce assorbenti.
L'immagine della spirale, con la sensazione della sua possibile importanza, mi accompagnò per molti anni ancora e quando scoprii, finalmente, il suo significato profondo capii, in conseguenza a quello, che quel terribile acido aveva rappresentato il segno di una predestinazione. La predestinazione al dover guardare con lo Spirito che è in me, e a non dover più utilizzare la mente per cercar di penetrare l'esistenza. Esistenza della quale intuisco l’essenza nell'immediatezza della conoscenza dei suoi principi universali. Principi che sono superiori al tempo e che si mostrano solo successivamente alla mente, ma nella loro immediata correlazione con l'Intelletto universale, Centro di ogni realtà. La comunicazione con questo Centro, per prima cosa, concede la conoscenza diretta delle Sue leggi ed è data dalla Sua volontà, che stabilisce l’adeguatezza delle misteriose qualificazioni individuali che aprono alla vista sottile. Per questo conoscere non ho più fatto altre esperienze di ricerca attraverso sostanze. Per questo sono consapevole che il dire della realtà non relativa può solo essere compreso da coloro che questa realtà già sperimentano consapevolmente. Io so per tutto questo, con certezza assoluta, che il vero comprendere non può essere insegnato né comunicato perché ognuno, per volontà del Cielo, deve aver salvaguardata la propria libertà di capire da sé chi è lui stesso e cos'è la vita.

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