ma non sapeva ancora di chiamarsi così
Il toccante racconto di Legend, le appassionate parole di Regina sul tema dell’amicizia, mi hanno risvegliato nel cuore un vecchissimo ricordo, anzi l’immagine soltanto di un vecchissimo ricordo, tanto lontano e breve da apparirmi alla mente come una di quelle foto gialle e marroni, sbiadite, che a volte sbucano fuori dai vecchi libri della biblioteca di famiglia.
Per qualcuno queste cose saltano su fuori per caso, per altri sono misteriosi messaggi di chissà quale piano del destino.
Non lo so. Il ricordo mi è affiorato tutt’assieme, non l’ho mai raccontato, non è un gran ricordo, e nemmeno lo ricordo bene. Ma ho voglia di raccontarlo qui stasera; sulla nostra panchina, non appena rinfreschi un poco, ed arrivi un poco di brezza, dopo la torrida giornata.
Chiamerò il racconto “L’amicizia di un giorno”… semplicemente perché di lui, non ricordo altro.
Antonio.
Si chiamava Antonio, ne sono quasi certo, ed era un mio collega d’ufficio… si, insomma quasi collega. Faceva l’analista di procedure in un ufficio quasi gemello a quello che dirigevo io, due stanze più in la, nell’ampio, elegante corridoio direzionale del nostro prestigioso Centro Elettronico.
Forse avevamo già avuto qualche contatto di lavoro, ma non ricordo bene. Certo ci conoscevamo almeno di vista e di fama. Non eravamo in molti noi specialisti, ed ognuno sapeva del lavoro di tutti gli altri. Anche quello di Antonio, che ricordo come persona riservatissima, silenziosa, senza fronzoli ma puntuale ed efficiente nella sua attività.
Forse non lo stimavo abbastanza intraprendente e versatile per il mio settore di funamboli del software, ma senz’altro una persona di valore.
E con questo ho detto tutto quanto ricordi di lui.
Meno che per quel giorno.
Forse mi avvicinò lui, deliberatamente, o forse ci trovammo a scendere insieme lo scalone di marmo dell’ufficio solo per caso, per quell’ora di intervallo che ci era concessa fra le 13 e le 14 come pausa pranzo.
Forse ci scambiammo un cenno di saluto, ma certo fu lui a parlare per primo:
«Solo soletto, oggi?... – effettivamente la mia abituale compagnia era assente, quel giorno – perché, non vieni a casa mia, tanto per fare una cosa diversa?... ci facciamo uno spaghetto volante e chiacchieriamo un poco.
Ti faccio vedere le mie fissazioni.
Credo che tu, da “Asimmetrico” come sei, potresti apprezzarle!...»
“Asimmetrico” era effettivamente il nomignolo affettuoso che mi avevano appioppato i colleghi amici.
Andai con piacere. Forse per spezzare la monotonia del solito ristorantino, ma certo anche perché, di natura, sono pronto ad accogliere le esigenze della gente, e dare una mano, se posso.
Antonio abitava in uno di quei palazzoni ultramoderni di Parco S. Paolo, allora ancora nuovo, credo ad un decimo o dodicesimo piano. Appartamentino standard da quattro vani e doppi accessori, con balconcino di rappresentanza ed un altro, piccolo, di servizio, affacciato sul cortile interno.
Una casa linda e decorosa, arredata con gusto… e qualcosa di strano.
Per via avevamo parlato di ufficio e banalità, ma ora, affaccendandosi ai fornelli, entrò in argomento, come prevedibile, cominciando dalla sua vita privata.
Sposato ma senza figli, stava vivendo il disgregarsi del suo matrimonio, e me ne raccontava senza astio, ma solo con l’amarezza dell’ineluttabilità.
Un matrimonio destinato a morire:
«…perché io la amo troppo e la opprimo, mentre lei ama troppo il resto del creato e vuole volare…».
Una separazione consensuale in malinconica attesa della legge sul divorzio, già nell’aria, e che sarebbe arrivata di lì a poco.
«ma fortunatamente non sono solo… io ho la mia musica, e la mia arte… e fortunatamente qualche volta mi capita di conoscere qualcuno che può apprezzare… poi ti faccio vedere, ora mangiamo».
Non cucina male, Antonio, ma i suoi spaghetti hanno il sapore delle lacrime, e di una solitudine negata, ma evidente in ogni parola, in ogni gesto.
Le stoviglie, gli arredi di casa, la stessa atmosfera ombrosa per le persiane semichiuse vengono continuamente accarezzate dal suo sguardo, da ogni respiro, dalle frasi che frequentemente, irrazionali interrompono il filo del suo discorso:
«…questo è un regalo di nozze… una cara zia defunta…»
«…questa formaggiera… la comprammo da Upim, brutta e che non c’entrava con niente del nostro servizio, ma la volle lo stesso… dice che le cose la chiamano, dai banconi…».
Ma Antonio non lagna. Non è il lamento di chi cerca conforto. E’ la generosa offerta di chi possiede cose preziose e vuole condividerle da chi ha scelto per amico.
Si è fatto tardi. L’ora di libertà è quasi passata ed occorre rientrare; di nuovo gli leggo negli occhi quella rassegnazione all’ineluttabile senza giudizio, senza rancore.
Telefono subito in ufficio: non tornerò quel pomeriggio, ed anche Antonio non può rientrare, che è impegnato con me. Avvisassero il suo funzionario: il permesso lo firmerò io.
Calco un poco la scena e sbircio di sottecchi il mio amico.
Non ha la faccia della gratitudine, sembra semplicemente approvare che io abbia fatto il giusto, come previsto; e continua il racconto della sua vita, sciorinando un intimo dolore infinito con la grazia affettuosa ed il distacco della fanciulla che sciorina la sua biancheria al sole.
Mi conduce nella stanza della musica:
«Qui pensavamo di metterci i bambini… se fossero venuti.
Guarda quanti bambini ho…».
La sua voce è senza inflessione. Mi sta solo mostrando una cosa.
In effetti la stanza è particolare. Pesanti tendaggi nascondono le pareti, ed una folta moquette copre il pavimento, rendendo la stanza un bunker di silenzio.
Al centro, due pesanti poltrone in velluto, con sgabello poggiapiedi ugualmente rivestito, un basso tavolinetto bar ed una piantana con su appese tre o quattro cuffie d’ascolto. Una bassa dormeuse davanti al balcone con su due cuscini. Null’altro.
Religiosamente direi, Antonio scosta le tende a mostrare scaffalature metalliche che dal pavimento coprono interamente le pareti, fino al soffitto. E sopra, i dischi.
Centinaia, migliaia di LP 33 giri ordinatamente incasellati ne occupano i ripiani, lasciando qua e là degli spazi vuoti, in attesa di ulteriori acquisti…
«Eccoquà, questo è il mio antro segreto… mi ci rifugio da solo, o con qualche amico… ma questo raramente. Ed ascolto la voce dei miei bambini.
Ho diciottomila 33 giri, qui e spesso ne aggiungo; quelli che riesco a trovare, quelli che posso comprare.
Più musica di quanta potrei ascoltarne, anche una volta sola, per tutta la vita.
Ma naturalmente molti brani li riascolto spesso, e mi sono familiari…
Come le parole dei figli che potresti avere…ne senti solo qualcuna… e quasi tutte le dimentichi subito. Ma quelle parole ci sono lo stesso…»
Sono esterrefatto, ma non convinto. Antonio, lo so, è persona acuta ed intelligente. Tento un’obiezione:
«Bellissima, la musica!... ma perché comprarne più di quanta tu riesca ad ascoltarne?...».
Sorride appena, ed il suo sorriso accennato è molto amaro, e malato:
«Non c’entra la musica; qui imparo ad ascoltare chi ha qualcosa da dire, ed imparo a tacere, come sempre mi diceva lei…
Se ne sentirai anche tu il bisogno, sai che da ora questo posto è anche tuo…»
Sfiorandomi il braccio, mi accompagna nella stanza attigua, il posto dove evidentemente trascorre la più parte del suo tempo. Ci sono tavoli di legno piallato sorretti da cavalletti, Qualche scaffalatura ingombra di cocci, un vecchio armadio di legno stinto, una tinozza con la creta coperta da una coperta bagnata e il tavolo da lavoro con su un bassorilievo in lavorazione coperto da pezzuole umide.
Verso la finestra, una piccola muffola da forse cinque o sei litri ed un tavolino di servizio.
«Vieni, ti spiego tutto.
A stare zitti per evitare di dire balordaggini, le cose ti crescono dentro, e l’anima diventa pesante. Allora hai bisogno di muovere le mani, al posto della lingua per esprimere le cose che senti forte.
Io ho trovato la creta, in cui ci modello la fede che vorrei avere, la passione che mi è negata, l’ammirazione che non posso esprimere, la solitudine che mi accompagna sempre…
Anche l’ufficio mi aiuta.
Le procedure che disegno, i programmi che scrivo, il mio software… incredibilmente sono la parte più concreta della mia vita, quella che più è “nel mondo” e “del mondo” ed il vedere voi colleghi passare per il corridoio o entrare nel mio ufficio, è il mio contatto con le folle.
La mia anima invece è qui, in queste mattonelle che faccio, piccole perché ho il forno piccolo, incisa nella creta, nei brutti segni che ci so modellare su, un frammento per volta.
Sai?... sto facendo un pannello grandissimo, fatto da 256 di questi pezzi di creta che vado cuocendo; pochi alla volta, che sennò si spaccano…
Ho disegnato solo uno schizzo, ma tutti i dettagli li ho in mente, e li metto giù pian piano, come facciamo coi programmi, una “routine” alla volta.
Come titolo per quando il lavoro sarà finito ho pensato “Tutto”, e mi sembra che sia appropriato, per rappresentare l’assoluto nulla della mia vita.
Sai?... ho già cotto 83 di queste piastrelle, e posso fartele vedere, e raccontartele… se vuoi.
Io lo so, che tu puoi capire…, se vuoi…».
Mi guarda fisso per un attimo. Ed il suo sguardo mi sembra implorante, mentre mi offre la sua anima, nuda ed inerme.
Si, amico, voglio capire, voglio accettare il dono prezioso che mi fai, e non so se ne sono degno, come non so se questa lacrima che mi sfugge davvero sia colpa dell’aria bruciata dalla muffola e dalla impalpabile polvere di creta che aleggia intorno o da qualcos’altro.
Passò così quasi tutto il pomeriggio, ed era buio quando ripassai per l’ufficio per aggiornarmi sugli eventi della giornata.
Quanto ad Antonio, l’ho rivisto innumerevoli volte, naturalmente, che per anni ancora abbiamo continuato a lavorare in quegli uffici vicini, sull’ampio, elegante corridoio direzionale del nostro prestigioso Centro Elettronico, ma non mi pare di ricordare nessun altro colloquio. Forse un “ciao”, o un sorriso di sfuggita, incrociandoci per caso.
L’incanto della nostra bellissima amicizia è durato un pomeriggio.
Un pomeriggio di quarant’anni fa.
Lucio Musto 16 luglio 2009