Scandalosamente in ritardo (ma in parte giustificato, ero in Toscana ad abboffarmi)
mi affaccio anch'io a questo thread godereccio per dare i miei contributi.
Così su due piedi, visto che blasel l'ha nominato nel topic d'apertura, propongo
IL CASATIELLO
così come lo scrissi per i miei bozzetti napoletani, e che stranamente non ancora ho pubblicato in Valle.
Strano, perché me lo rivendo spesso.
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Il Casatiello
«Ve lo ricordate?...»
«Certo!... è quella pizza rustica tanto originale e saporita che si trova in centro nelle gastronomie e nelle rosticcerie di tendenza!...
Simpaticissima con quel suo gusto un po’ retrò, ed anche tanto grasso!...
Bisogna stare attenti!... una fettina di quello e la dieta ti va a sballo per una settimana!...»
Ricordate il casatiello?... no.
Se fortunatamente pensate che sia questo, non sapete affatto cosa sia.
Io lo ricordo, invece. Ne ricordo tanti, e li ricordo bene.
Tutti in fila, li, sul tavolaccio di Franco, il panettiere del Vicolo, in attesa di essere infornati.
Già. in ordine rigoroso, perché Franco è un sacerdote laico che non fa preferenze.
Ci tiene a mantenersi puro e bianco. Come la sua farina, che è benedizione
Ed allora parliamo di “casatiello”. Quello storico, quello di una volta, quando era una cosa seria, e non una paccottiglia qualsiasi da sbattere in vetrina per il sollazzo di passanti e turisti.
Il Casatiello una volta era il cibo di Pasqua, insieme con la “Minestra maritata”, quella fatta con le prime fresche erbe selvatiche raccolte nei campi… Ma la “Minestra maritata” vera se la potevano permettere solo alcuni, quelli cui era rimasto ancora l’osso di prosciutto, magari chissà, con ancora qualche tendine ed un po’ di ciccia ancora attaccata vicino… ma questa è un’altra storia.
Il “casatiello” dicevo, era il cibo di Pasqua, e racchiudeva in se molti significati, tradizioni, speranze, preghiere. Quando significati, tradizioni, speranze, e preghiere facevano parte ancora dei “valori”, perché di “valori”, allora ce ne erano ancora.
Il casatiello si faceva con la farina, l’acqua, il criscio (chiamavamo così il lievito naturale, quello che tramandandosi da lavorazione a lavorazione gonfiava il pane nel forno)… e “quello che c’era”!.
Si dava fondo cioè, per salutare la fine dell’inverno, per festeggiare la Resurrezione del Salvatore e della Terra, per auspicare una buona stagione futura agli ultimi residui delle provviste invernali.
Quelle che le mamme-massaie regine del focolare ed arbitre oculate dell’economia di casa avevano “fatto durare” per tutto il periodo freddo distribuendo ed amministrando con attenzione e parsimonia il poco disponibile.
Nel casatiello entrava l’ultimo culetto del salame, della lonza, della pancetta, le ultime scorze di formaggio accuratamente tritate per l’occasione, il fondo della pignatta della sugna (quella più saporita, perché ricca dei minuscoli grasselli arrosticati e le altre impurità dello “squagliamiento” casalingo)… insomma tutto quanto di ancora commestibile, ma non più presentabile in tavola si trovasse in casa.
Era una forma di catarsi culinaria, simbolicamente avvicinabile a quelle “Pulizie di Pasqua” che si facevano nelle case, in modo particolarmente approfondito per devozionalmente celebrare appunto la “Resurrezione”
Come notarella a latere voglio dire che già ai tempi dei miei ricordi di bambino i salumieri preparavano (e vendevano, ma a prezzo popolare) una mescolanza minutamente spezzettata dei loro fondi di magazzino, i resticcioli dei loro prodotti in vendita, in dialetto chiamata “tozz’ ‘e bancune”. Ma ricordo anche che gli anziani dell’epoca arricciavano il naso a questa “modernità”:
«Quello, il problema è che le donne di oggi, - dicevano - la casa non la sanno più governare, si fanno “sfumare la robba” fra le mani, e poi devono andare a comprarsi la remmasuglia dal salumiere!...»
Il casatiello poi, con questo “companatico”, il lievito e tutto il pepe che ci si riusciva a procurare (per il sapore, o forse chissà, per “coprire” i sapori!) veniva impastato e sistemato in forma di ciambella in appositi stampi di ferro zincato (quelli di alluminio sarebbero venuti poi!) e mandati al forno.
Il perché della forma a ciambella non la conosco; forse un richiamo alla corona di spine posta sul capo di Gesù?... certo che il nome che fra poco assumerà di “Tortano” può riecheggiare appunto l’idea dell’intreccio dei rami o forse il tipo di lavorazione che prevedeva un attorcigliamento della pasta per rendere più intimo il legame fra pane e “companatico”.
Di tradizione si appoggiavano poi sulla ciambella delle uova, evidente ed universale simbolo di rinascita, ognuna fissata alla massa della torta da due listarelle di pasta incrociate.
Sin troppo evidente la simbologia scaramantica che collega l’uovo, l’offerta delle ultime ricchezze dell’anno e la croce.
Le teglie di ferro venivano poi portate al forno (pochi allora avevano un forno in casa, e certamente non tanto potente da cuocere un “Casatiello”!) ed il panettiere provvedeva, per pochi spiccioli o gratuitamente ai clienti affezionati, alla giusta cottura.
L’ho già detto, ma mi piace ripeterlo, che la coda d’attesa era rigidissima, e non si ammettevano eccezioni. Il “Casatiello” è Pasqua, ed in Cielo siamo tutti uguali. Nessun fornaio, a quei tempi si sarebbe permesso di fare uno sgarbo alla devozione; nemmeno i fornai atei.
Non so perché, i casatielli al forno li portavamo, e li andavamo a riprendere noi ragazzi. Raramente si vedeva un uomo, col “ruoto” in mano, o una signora. E quando accadeva, lasciavano il loro carico in custodia al fornaio e scappavano subito via imbarazzati. La “consegna” per noi ragazzi invece era di aspettare finché non “fosse dentro”. La motivazione ufficiale era per una previsione da parte della mamma di quando lo si potesse ritirare, ma non vorrei si potesse spettegolare su qualche altro motivo…
Ripeto, non so perché gli adulti non ci fossero, nella fase di infornatura dei casatielli, ma a questa stranezza ci ho pensato parecchio, e forse una risposta me la sono data.
La riferisco qui, ma precisando che è gratuita. Non saprei sostenere la tesi in tribunale!
Io penso che gli adulti si tenessero lontani per pudore. Quel tipo di pudore che ai ragazzi ingenui ed aperti come eravamo noi, è lecito non avere.
Eh si!... perché gli innumerevoli contenitori di casatielli, di norma uno per famiglia, allineati sul bancone d’attesa del forno, erano diversi, molto diversi l’uno dall’altro!
Ed anche noi bambini, ingenui ma atroci come solo gli innocenti sanno essere, che ne accorgevamo, e ne ridevamo, nei lungi tempi dell’attesa del nostro turno.
E c’era il casatiello gonfio di strutto e companatico e costellato di molte uova (la tradizione diceva un uovo a testa per ogni commensale, ma alcuni ricchi ne mettevano due affiancati per ognuno, un po’ per ostentazione e molto per scaramanzia alquanto boccaccesca… il casatiello dignitoso in imbottitura e dimensioni, e poi tanti casatielli sproporzionati, sghembi ed evidentemente miserelli.
Quelli dove le uova erano troppo distanziate per esserne una a porzione, quello con la pasta troppo giallastra a denunciare una contaminazione fra farina di grano e polenta, quello in cui affioravano poche tracce di companatico, quello dall’aspetto grigiastro e malaticcio…
Insomma per noi ragazzi erano argomento di divertimento e sfottò, ma vedere quelle offerte pasquali (perché questo è il “casatiello”, l’estrema offerta dell’indigenza), sarebbe stato per gli adulti, io penso, come sbirciare nelle case altrui, violare l’intimità dei vicini, la dignitosa miseria che noi tutti all’epoca vivevamo.
Poi l’epoca del castiello è passata ed è venuta quella della Colomba, della Colomba Nocciolina o Glassata, ricoperta di cioccolata o farcita… ed i nostri migliori mastri pasticceri stanno ogni anno a smattirsi per propinarcene di diverse, intriganti ed appetibili… Menomale!
Ma perché ho abusato della pazienza dei miei lettori, gente del duemilaotto, con questa storia del casatiello?... Perché tante parole su un pezzo di pane conzo che si usava mezzo secolo fa?... amore di anticaglie della mia città, che nemmeno ho nominato o ricerca del raccontino strappalacrime di successo?... Magari, mi dico, magari!... beccherei un insulto per il tempo rubato o un rimbrotto come imbrattacarte.
E non mi importerebbe se il mio lettore dicesse: «Questo racconto è proprio un casatiello!»
No, non conta se il racconto del “casatiello” sia affascinante o scadente.
Quel che conta è che i tempi del “casatiello” stanno tornando. Ineluttabilmente, ed in fretta.
E le lacrime ci stanno tutte: le mie e quelle di chi vorrà piangere con me.
Siamo noi pronti a questa nuova fase?... ce le avremo le donne operose e provvide capaci di vegliare sulle nostre case, sulle nostre provviste invernali, sui nostri risparmi e farli durare finché tornerà primavera?...
Abbiamo addestrato i nostri figli a quest’eventualità che pure sappiamo esistere perché ancora ce la ricordiamo per averla vissuta e che ora sta ritornando?
Ed i nostri nipoti, sapranno ancora applaudire sorridenti all’apertura del “casatiello” di Pasqua, come sapevamo fare noi, considerandolo un dono ed un privilegio… o abbiamo tirato su delle generazioni che solo potranno maledirci e bestemmiarci?...
E quel che è peggio, è che avrebbero anche ragione. Perché noi sapevamo, e per egoismo, abbiamo taciuto!
Lucio Musto 13 novembre 2008
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