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I ragù
Diciamolo subito. Il vero ragù napoletano celebrato dai nostri nonni come pietanza irrinunciabile dei giorni di festa, il ragù delle poesie di Eduardo, il ragù coprotagonista a teatro e sullo schermo della celebre “Sabato, domenica e lunedì”, non esiste più.
E non esiste più da parecchio tempo.
Io stesso non credo di averlo mai assaggiato, né l’ho visto mai preparare. In casa si raccontava che mio padre lo sapesse fare ed anche il nonno di mia moglie, Don Enrico, pare lo facesse egregiamente… Ma si tratta solo di ricordi raccontati in favore di grandi uomini per amore celebrati.
I perché della perdita di questa ricetta e di della bella tradizione conviviale credo siano molteplici, legati forse alle moderne diete, ai frenetici ritmi della vita di oggi, all’invasione di nuove e più sbrigative pietanze forestiere, ma soprattutto, penso, alla scomparsa della materia prima.
Per il ragù alla napoletana infatti ci voleva la conserva di pomodoro, e quella, non si fa più!
Per amor di documentazione, ma soprattutto per spiegare il “ritmo esistenziale” in cui poteva nascere il ragù, ed alimentare la popolazione di una volta, diciamo una parola sulla “conserva” di pomodoro, vanto ed orgoglio delle massaie e frutto di una intera estate di attenzioni.
Si preparava dunque la conserva cominciando con lo scegliere i pomodori sammarzano (ma i napoletani più poveri si adattavano a varietà meno prestigiose) perfettamente sani e del tutto maturi.
Cotti di una breve cottura con una “’ndecchia” (piccola quantità segreta e personale) di acido salicilico preso in farmacia e pochissimo sale, venivano passati nel passaverdure (più recentemente nell’apposita macchinetta brevettata) e ridotti in salsa.
Questa veniva distribuita in appositi larghissimi piatti di terraglia smaltata, da esporre poi al sole sui lastrici solari delle abitazioni (pochissime case a Napoli hanno il tetto; si preferisce la copertura a terrazzo ovvero si lascia semplicemente a vista la guaina catramata nera che d’estate, col sole a picco, diventa rovente!)
Qualche giorno di esposizione al sole, ed il volume della salsa si riduceva alla metà ed anche meno.
ed allora da due o più piatti se ne faceva uno solo, ed altra salsa andava ad occupare i piatti liberati.
il procedimento continuava praticamente per tutta l’estate ed il piatto di raccolta (tenuto anch’esso sempre al sole, si arricchiva di sempre nuovi apporti di salsa nuova a diluire un poco le precedenti
aggiungendo profumo fresco a prodotto che andava maturando.
Dopo l’ultima aggiunta, la massa densa veniva lasciata ancora almeno una settimana o due esposta al sole, quotidianamente rimestata con cura, finché la massaia decideva che la “conserva” era pronta, bruna di colore, profumata e sapida.
Conservata in grandi barattoli di vetro o di coccio smaltato bianco (uguali a quelli per le melanzane sott’olio…) e protetta da un filo d’olio, avrebbe generato i ragù festivi di tutto l’anno.
Si vede bene che già alla genesi del ragù c’era attenzione, pazienza, devozione ed amore.
Subito dopo la guerra, sullo stile americano, nacque la conserva industriale, essiccata alla svelta in forno e commercializzata in grandi contenitori di lamiera zincata: “ ‘A conserva d’o buattone”, si diceva, ed il pizzicagnolo la vendeva sfusa, su fogli di carta oleata.
Ovviamente, era già tutt’altra cosa.
Ripeto sono cose raccontate, anche se la conserva l’ho vista ancora fare in qualche paesino dell’interland di Napoli, quand’ero ragazzo; ma non so molto altro.
Lessi una volta delle preparazione del ragù in un vecchio libro, delle otto e più ore dei cottura di un pezzo di carne di manzo o di annecchia che non saprei individuare nei nuovi tagli, gli aromi, la sugna, l’aggiunta graduale della conserva, la parsimoniosa diluizione della salsa, della squisitezza del risultato di tanta paziente opera… ma se non la sappiamo fare, che ne parliamo a fare?... per ingannare lo stomaco?...
Parliamo allora di un altro ragù, più vicino a noi, più urbano, più “realizzabile”.
Ha un nome suo, che è tutto un programma… ed una minaccia.
Si chiama “il ragù del guardaportortone”, e trova la sua giustificazione nel fatto “ca sul’isso ‘o ppo’ ffa”, solo lui lo può fare poiché, bloccato per ore ed ore nella guardiola (di norma parte integrante della casa del portiere) ne può sorvegliare la lenta e lunghissima cottura, con frequenti rimescolamenti ed eventuale aggiunte di piccolissime quantità di liquido. Perché il ragù deve sobollire piano rimanendo sempre denso, ma senza attaccare (troppo) sul fondo del pentolone.
Un minimo di bruciaticcio invece ci stà bene, perché conferisce al sugo quel leggero sapore di “antico” che tanto lo contraddistingue. Sentore che, con riferimento ad una nota storiella, ha anche un nome; si chiama “il sapore della buonanima”.
Ed andiamo a farlo, questo ragù “povero” e moderno. Il ragù degli ziti domenicali (a Napoli la pasta bucata, lunga, liscia, da spezzare con le mani al momento di lessarla si chiama “ziti” e non “zite” come nel resto d’Italia… dove e quando si trovano; le penne no, sono un’altra cosa, quelle sono le figlie degeneri dei “maltagliati”, ma questo è un altro discorso).
Ci vuole un pentolone, grande, perché non è possibile fare un ragù per due persone… ma tranquilli, il ragù si conserva per più giorni e senza (troppi) danni si può anche congelare. Possibilmente una pentola col fondo molto spesso o, ideale, una pentola di coccio.
La carne è quella povera, quella che poteva permettersi il guardaportone. Spezzatino misto di manzo e maiale, carni di secondo o terzo taglio, un po’ grassette (ma possibilmente non troppo) un po’ nervose come coperta, piccione, fiocco eccetera. Un poco di tendine di zampa, qualche tracchiolella (costine di maiale) magari un pezzo di coda e qualche salsiccia.
Tutti questi pezzi io li faccio rosolare in ondate successive in un poco di olio e di strutto dopo averle appena spolverate con quei preparati per arrosto che si vendono già pronti. Solo qualche goccio di vino bianco, di tanto in tanto, per sciogliere i sapori che vanno ad attaccarsi al fondo.
“Stordita” la carne, nel condimento metto le verdure: cipolla, aglio, carota, poco sedano, qualche bacca di ginepro, salvia e timo fresco, tutto passato nello sminuzzatore manuale o elettrico.
Lascio appassire le verdure, eventualmente occorra aggiungendo ancora vino bianco, per una diecina di minuti. Il profumo mi invoglia a proseguire.
Aggiungo una prima bottiglia di passata di pomodoro e faccio prendere il bollo. Quindi metto giù la carne. Aggiungerò ancora passata ed una scatoletta o due di doppio concentrato di pomodoro (o triplo concentrato quando riesco a trovarlo) ma con molta prudenza, facendo attenzione a che il bollo non scompaia mai del tutto, ma non arrivo alla raffinatezza di riscaldare a parte il pomodoro prima di aggiungerlo; cerco solo di evitare bruschi choc termici che disturbano la cottura della carne. Aggiungo anche due o tre foglie d’alloro intere, ma è gusto mio personale.
Il gioco è fatto. Ora basta che il sugo sobollisca leggermente per due, tre ore, rigirato qualche volta che non attacchi sotto, ed il ragù dirà lui stesso, cambiando colore e tipo di bollore quando è pronto.
Ben oltre la metà cottura (diciamo dopo un’ora e mezza) va controllato il sale. Di solito occorre aggiungerne un pizzico, ma siate parsimoniosi; nell’ora, ora e mezza che ancora manca al fine cottura evaporerà ancora acqua e la sapidità aumenterà.
E’ questo il momento del tocco del maestro. Uno, due o tre cucchiaini di cacao amaro in polvere possono essere aggiunti all’intingolo e, udite udite!, anche un cucchiaino o due di zucchero, se al gusto avete l’impressione che ci sia ancora un retrogusto di acidità del pomodoro.
La passata di pomodoro è acida di natura e di additivi, ma l’acidità scompare con la cottura. Se è ancora acidula dopo un’ora e mezzo di cottura… beh!, un “aiutino” bisogna darglielo!
A fine cottura, i pezzi di carne saranno ancora interi o solo parzialmente sfaldati, ma comunque morbidissimi e cedevoli alla forchetta. Così devono essere.
Serviranno a guarnizione del piatto di ziti.
A Napoli, ai miei tempi, usava così:
Gli ziti, spezzati a mano (mi raccomando di usare anche i pezzetti triangolari chiamati “unghie”) e cotti al dente, scolati e messi nella zuppiera di coccio (Trucco: scolate la pasta raccogliendo l’acqua nella zuppiera per riscaldarla) saranno “sporcati” con qualche mestolo di ragù, e portati in tavola.
Solo li la Padrona di casa farà i piatti, ci aggiungerà parmigiano o pecorino grattugiati secondo il gusto del singolo commensale, quindi il sugo ed il o i pezzi di carne a decorazione.
Se possibile, l’immancabile foglia o ciuffetto di basilico… e buon appetito.
Un ultimo tocco. Talvolta si arricchisce il ragù con la ricotta. E qui ci sono varie “scuole di pensiero; secondo alcuni va messa così, bianca, in fase di “sporcatura” della pasta, secondo altri va emulsionata con un mestolo di sugo, secondo altri va servita a tavola al naturale, ed ognuno se ne serve a gusto proprio. Fate come vi pare.
A me, se il ragù è fatto “comm’a fio fis”, mi va bene comunque, ma se il ragù è “carne c’a pummarola”, non c’è ricotta che lo possa salvare!
Lucio Musto 25 ottobre 2011
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PS - Se, e dico se, dovesse putacaso avanzare un poco di pasta, è sacrilegio buttarla via.
A sera, saltata ed arrosticata in padella con un goccio d’olio… è ancora più buona!... e se non ce la fate proprio, domani, con l’aiuto di qualche uovo sbattuto ed un poco di formaggio grattugiato e magari un pezzetto di fiordilatte, si può realizzare una “frittata di maccheroni”… ‘a fa scetà ‘e muorte!” (da risvegliare i morti!)
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I ragù
Diciamolo subito. Il vero ragù napoletano celebrato dai nostri nonni come pietanza irrinunciabile dei giorni di festa, il ragù delle poesie di Eduardo, il ragù coprotagonista a teatro e sullo schermo della celebre “Sabato, domenica e lunedì”, non esiste più.
E non esiste più da parecchio tempo.
Io stesso non credo di averlo mai assaggiato, né l’ho visto mai preparare. In casa si raccontava che mio padre lo sapesse fare ed anche il nonno di mia moglie, Don Enrico, pare lo facesse egregiamente… Ma si tratta solo di ricordi raccontati in favore di grandi uomini per amore celebrati.
I perché della perdita di questa ricetta e di della bella tradizione conviviale credo siano molteplici, legati forse alle moderne diete, ai frenetici ritmi della vita di oggi, all’invasione di nuove e più sbrigative pietanze forestiere, ma soprattutto, penso, alla scomparsa della materia prima.
Per il ragù alla napoletana infatti ci voleva la conserva di pomodoro, e quella, non si fa più!
Per amor di documentazione, ma soprattutto per spiegare il “ritmo esistenziale” in cui poteva nascere il ragù, ed alimentare la popolazione di una volta, diciamo una parola sulla “conserva” di pomodoro, vanto ed orgoglio delle massaie e frutto di una intera estate di attenzioni.
Si preparava dunque la conserva cominciando con lo scegliere i pomodori sammarzano (ma i napoletani più poveri si adattavano a varietà meno prestigiose) perfettamente sani e del tutto maturi.
Cotti di una breve cottura con una “’ndecchia” (piccola quantità segreta e personale) di acido salicilico preso in farmacia e pochissimo sale, venivano passati nel passaverdure (più recentemente nell’apposita macchinetta brevettata) e ridotti in salsa.
Questa veniva distribuita in appositi larghissimi piatti di terraglia smaltata, da esporre poi al sole sui lastrici solari delle abitazioni (pochissime case a Napoli hanno il tetto; si preferisce la copertura a terrazzo ovvero si lascia semplicemente a vista la guaina catramata nera che d’estate, col sole a picco, diventa rovente!)
Qualche giorno di esposizione al sole, ed il volume della salsa si riduceva alla metà ed anche meno.
ed allora da due o più piatti se ne faceva uno solo, ed altra salsa andava ad occupare i piatti liberati.
il procedimento continuava praticamente per tutta l’estate ed il piatto di raccolta (tenuto anch’esso sempre al sole, si arricchiva di sempre nuovi apporti di salsa nuova a diluire un poco le precedenti
aggiungendo profumo fresco a prodotto che andava maturando.
Dopo l’ultima aggiunta, la massa densa veniva lasciata ancora almeno una settimana o due esposta al sole, quotidianamente rimestata con cura, finché la massaia decideva che la “conserva” era pronta, bruna di colore, profumata e sapida.
Conservata in grandi barattoli di vetro o di coccio smaltato bianco (uguali a quelli per le melanzane sott’olio…) e protetta da un filo d’olio, avrebbe generato i ragù festivi di tutto l’anno.
Si vede bene che già alla genesi del ragù c’era attenzione, pazienza, devozione ed amore.
Subito dopo la guerra, sullo stile americano, nacque la conserva industriale, essiccata alla svelta in forno e commercializzata in grandi contenitori di lamiera zincata: “ ‘A conserva d’o buattone”, si diceva, ed il pizzicagnolo la vendeva sfusa, su fogli di carta oleata.
Ovviamente, era già tutt’altra cosa.
Ripeto sono cose raccontate, anche se la conserva l’ho vista ancora fare in qualche paesino dell’interland di Napoli, quand’ero ragazzo; ma non so molto altro.
Lessi una volta delle preparazione del ragù in un vecchio libro, delle otto e più ore dei cottura di un pezzo di carne di manzo o di annecchia che non saprei individuare nei nuovi tagli, gli aromi, la sugna, l’aggiunta graduale della conserva, la parsimoniosa diluizione della salsa, della squisitezza del risultato di tanta paziente opera… ma se non la sappiamo fare, che ne parliamo a fare?... per ingannare lo stomaco?...
Parliamo allora di un altro ragù, più vicino a noi, più urbano, più “realizzabile”.
Ha un nome suo, che è tutto un programma… ed una minaccia.
Si chiama “il ragù del guardaportortone”, e trova la sua giustificazione nel fatto “ca sul’isso ‘o ppo’ ffa”, solo lui lo può fare poiché, bloccato per ore ed ore nella guardiola (di norma parte integrante della casa del portiere) ne può sorvegliare la lenta e lunghissima cottura, con frequenti rimescolamenti ed eventuale aggiunte di piccolissime quantità di liquido. Perché il ragù deve sobollire piano rimanendo sempre denso, ma senza attaccare (troppo) sul fondo del pentolone.
Un minimo di bruciaticcio invece ci stà bene, perché conferisce al sugo quel leggero sapore di “antico” che tanto lo contraddistingue. Sentore che, con riferimento ad una nota storiella, ha anche un nome; si chiama “il sapore della buonanima”.
Ed andiamo a farlo, questo ragù “povero” e moderno. Il ragù degli ziti domenicali (a Napoli la pasta bucata, lunga, liscia, da spezzare con le mani al momento di lessarla si chiama “ziti” e non “zite” come nel resto d’Italia… dove e quando si trovano; le penne no, sono un’altra cosa, quelle sono le figlie degeneri dei “maltagliati”, ma questo è un altro discorso).
Ci vuole un pentolone, grande, perché non è possibile fare un ragù per due persone… ma tranquilli, il ragù si conserva per più giorni e senza (troppi) danni si può anche congelare. Possibilmente una pentola col fondo molto spesso o, ideale, una pentola di coccio.
La carne è quella povera, quella che poteva permettersi il guardaportone. Spezzatino misto di manzo e maiale, carni di secondo o terzo taglio, un po’ grassette (ma possibilmente non troppo) un po’ nervose come coperta, piccione, fiocco eccetera. Un poco di tendine di zampa, qualche tracchiolella (costine di maiale) magari un pezzo di coda e qualche salsiccia.
Tutti questi pezzi io li faccio rosolare in ondate successive in un poco di olio e di strutto dopo averle appena spolverate con quei preparati per arrosto che si vendono già pronti. Solo qualche goccio di vino bianco, di tanto in tanto, per sciogliere i sapori che vanno ad attaccarsi al fondo.
“Stordita” la carne, nel condimento metto le verdure: cipolla, aglio, carota, poco sedano, qualche bacca di ginepro, salvia e timo fresco, tutto passato nello sminuzzatore manuale o elettrico.
Lascio appassire le verdure, eventualmente occorra aggiungendo ancora vino bianco, per una diecina di minuti. Il profumo mi invoglia a proseguire.
Aggiungo una prima bottiglia di passata di pomodoro e faccio prendere il bollo. Quindi metto giù la carne. Aggiungerò ancora passata ed una scatoletta o due di doppio concentrato di pomodoro (o triplo concentrato quando riesco a trovarlo) ma con molta prudenza, facendo attenzione a che il bollo non scompaia mai del tutto, ma non arrivo alla raffinatezza di riscaldare a parte il pomodoro prima di aggiungerlo; cerco solo di evitare bruschi choc termici che disturbano la cottura della carne. Aggiungo anche due o tre foglie d’alloro intere, ma è gusto mio personale.
Il gioco è fatto. Ora basta che il sugo sobollisca leggermente per due, tre ore, rigirato qualche volta che non attacchi sotto, ed il ragù dirà lui stesso, cambiando colore e tipo di bollore quando è pronto.
Ben oltre la metà cottura (diciamo dopo un’ora e mezza) va controllato il sale. Di solito occorre aggiungerne un pizzico, ma siate parsimoniosi; nell’ora, ora e mezza che ancora manca al fine cottura evaporerà ancora acqua e la sapidità aumenterà.
E’ questo il momento del tocco del maestro. Uno, due o tre cucchiaini di cacao amaro in polvere possono essere aggiunti all’intingolo e, udite udite!, anche un cucchiaino o due di zucchero, se al gusto avete l’impressione che ci sia ancora un retrogusto di acidità del pomodoro.
La passata di pomodoro è acida di natura e di additivi, ma l’acidità scompare con la cottura. Se è ancora acidula dopo un’ora e mezzo di cottura… beh!, un “aiutino” bisogna darglielo!
A fine cottura, i pezzi di carne saranno ancora interi o solo parzialmente sfaldati, ma comunque morbidissimi e cedevoli alla forchetta. Così devono essere.
Serviranno a guarnizione del piatto di ziti.
A Napoli, ai miei tempi, usava così:
Gli ziti, spezzati a mano (mi raccomando di usare anche i pezzetti triangolari chiamati “unghie”) e cotti al dente, scolati e messi nella zuppiera di coccio (Trucco: scolate la pasta raccogliendo l’acqua nella zuppiera per riscaldarla) saranno “sporcati” con qualche mestolo di ragù, e portati in tavola.
Solo li la Padrona di casa farà i piatti, ci aggiungerà parmigiano o pecorino grattugiati secondo il gusto del singolo commensale, quindi il sugo ed il o i pezzi di carne a decorazione.
Se possibile, l’immancabile foglia o ciuffetto di basilico… e buon appetito.
Un ultimo tocco. Talvolta si arricchisce il ragù con la ricotta. E qui ci sono varie “scuole di pensiero; secondo alcuni va messa così, bianca, in fase di “sporcatura” della pasta, secondo altri va emulsionata con un mestolo di sugo, secondo altri va servita a tavola al naturale, ed ognuno se ne serve a gusto proprio. Fate come vi pare.
A me, se il ragù è fatto “comm’a fio fis”, mi va bene comunque, ma se il ragù è “carne c’a pummarola”, non c’è ricotta che lo possa salvare!
Lucio Musto 25 ottobre 2011
---------------------------------------
PS - Se, e dico se, dovesse putacaso avanzare un poco di pasta, è sacrilegio buttarla via.
A sera, saltata ed arrosticata in padella con un goccio d’olio… è ancora più buona!... e se non ce la fate proprio, domani, con l’aiuto di qualche uovo sbattuto ed un poco di formaggio grattugiato e magari un pezzetto di fiordilatte, si può realizzare una “frittata di maccheroni”… ‘a fa scetà ‘e muorte!” (da risvegliare i morti!)