Di cosa ha bisogno l'io contemporaneo? La telecamera ha creato la cultura della celebrità, il computer sta creando quella della connettività. Con il convergere di queste due tecnologie - la banda larga catapulta il web dal testo all'immagine, i social network moltiplicano le interconnessioni - le due culture tradiscono una pulsione comune. Celebrità e connettività sono due modi di farsi conoscere. Ed è questo che vuole l'io contemporaneo. Vuole essere riconosciuto. Collegato. Visibile. Se non a milioni di persone, almeno a qualche centinaia. Magari su Twitter o su Facebook. È questa la condizione che conferma il nostro io. Facendoci vedere dagli altri diventiamo veri per noi stessi. L'anonimato è il grande terrore contemporaneo. Se nel romanticismo, come diceva Lionel Trilling, l'elemento che ancorava l'io alla realtà era la sincerità e nel modernismo l'autenticità, nel postmodernismo è la visibilità.
E così viviamo esclusivamente in rapporto agli altri, mentre la solitudine scompare dalle nostre vite. La tecnologia ci sta portando via non solo l'intimità e la concentrazione, ma anche la capacità di stare da soli. Stiamo rapidamente e volontariamente distruggendo queste ricchezze. [...]
A questa domanda la storia offre molte risposte. L'uomo può essere un animale sociale, ma la solitudine è sempre stata un valore della comunità . In particolare l'isolamento è stato interpretato come una dimensione essenziale dell'esperienza religiosa, anche se limitato ai pochi che lo sceglievano volontariamente . Attraverso la solitudine degli spiriti eletti, la collettività rinnova il suo rapporto con il divino. [...]
Come altri valori religiosi, l'isolamento è diventato una pratica comune grazie alla riforma protestante, ed è stato laicizzato dal romanticismo. [...] con il romanticismo che la solitudine ha conquistato la massima rilevanza culturale, diventando al tempo stesso letterale e letteraria. La solitudine protestante era soltanto metaforica. Rousseau e Wordsworth la resero fisica. L'incontro con il sé non avveniva in Dio ma nella natura. Per incontrare la natura bisognava entrarci in contatto, con una sensibilità particolare: il poeta prendeva il posto del santo come veggente sociale e modello culturale. Ma poiché il romanticismo ereditò anche l'idea settecentesca della solidarietà sociale, la solitudine romantica era in rapporto dialettica con la socialità. La pratica romantica della solitudine è stata perfettamente compresa da Trilling, secondo cui l'io prende forma dalla relazione coerente tra apparenza pubblica ed essenza privata, una congruenza che stabilizza il rapporto con se stessi e con gli altri. Soprattutto con l'altro che amiamo, come suggerisce Emerson. Da qui le famose coppie dell'amicizia romantica: Goethe e Schiller, Wordsworth e Coleridge, Hawthorne e Melville.
Il modernismo ha rotto questo equilibrio. Il suo concetto di solitudine era più rigido, antagonistico e isolante. La simpatia sociale di Hume cedeva il posto al muro della personalità di Pater e al narcisismo di Freud: la sensazione che l'anima, chiusa in se stessa e inaccessibile agli altri, non abbia altra scelta che restare da sola. [...]
L'ideale romantico di solitudine si sviluppò in parte come reazione alla città moderna. Nel modernismo la città non solo è più minacciosa che mai, ma diventa un posto da cui è impossibile fuggire. Come un labirinto: la Londra di Eliot, la Dublino di Joyce. La folla incalza. Le altre persone rappresentano l'inferno. L'anima è costretta a rinchiudersi in se stessa. Si sviluppa un'idea di autoaffermazione più austera e tormentata, dove il rapporto essenziale è quello con se stessi. La solitudine diventa, più che mai, l'arena di un'eroica scoperta di sé, un viaggio attraverso panorami interiori resi vasti e terrificanti dalle visioni di Nietzsche e Freud. [...]
Ma anche il modello della città modernista è stato superato. All'urbanizzazione ha fatto seguito la suburbanizzazione, e con essa si è affermato il pericolo universale della solitudine. La nostra grande paura non è essere sommersi dalla massa ma rimanere in disparte. Il desiderio di isolamento delle persone, prima accentuato dalle tecnologie dei trasporti, è stato poi attenuato dalle tecnologie della comunicazione. Che ci hanno dato l'impressione di poterci avvicinare sempre di più.
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In questo contesto, internet è arrivata come una benedizione. Ha permesso alle persone isolate di comunicare e a quelle emarginate di incontrarsi. [...] Ma internet ormai è cresciuto troppo. Dieci anni fa scrivevamo messaggi elettronici su computer ingombranti e li trasmettevamo collegandoci via telefono. Ora mandiamo sms con il cellulare, pubblichiamo foto su Facebook e seguiamo perfetti sconosciuti su Twitter. Un flusso costante di contatti mediati, virtuali, apparenti o simulati ci tiene collegati all'alveare elettronico, mentre il contatto reale sembra contare sempre di meno. L'obiettivo ora è semplicemente farsi conoscere, diventare una specie di celebrità in miniatura. Quanti amici ho su Facebook? Quante persone leggono il mio blog? Quanti risultati di Google genera il mio nome? La visibilità garantisce la nostra autostima, diventando il surrogato di una vera relazione. Fino a poco tempo fa era facile sentirsi soli. Oggi è impossibile.
La conseguenza è che stiamo perdendo entrambi gli elementi della dialettica romantica: socialità e solitudine. Cosa significa amicizia quando hai 532 "amici"? Facebook mi dice che Sally Smith "sta preparando il caffè e guarda nel vuoto". Ma questo non aumentala nostra intimità [...]
In realtà, il loro uso della tecnologia (forse sarebbe più onesto dire "il nostro") sembra implicare uno sforzo costante per evitare la solitudine. Un tentativo continuo, mentre siamo seduti da soli davanti ai nostri computer, di conservare la presenza immaginaria degli altri. Nel 1952 Trilling parlava della "moderna paura di essere tagliati fuori dal gruppo sociale anche solo per un attimo". Ci siamo attrezzati per impedire che questo timore si realizzi. Ma questo non significa essersene liberati. Al contrario. Pensate alla mia studentessa che non riesce neanche a scrivere una tesina da sola: più teniamo alla larga la solitudine, meno siamo in grado di gestirla.[...]
[...] Non siamo soltanto animali sociali. Ognuno di noi è anche separato dagli altri e solitario. Ognuno è un sé unico, misteriosamente racchiuso in questo sé.
Ricordare questo significa distanziarsi dalla società. La solitudine, diceva Emerson, "è per il genio un amico severo. Colui che dovrebbe ispirare e guidare la sua specie deve esser difeso dal rischio di viaggiare con l'anima di altri uomini. Di vivere, respirare, leggere, e scrivere sotto il giogo quotidiano, logorato dal tempo, delle loro opinioni": Bisogna proteggersi dall'urto del consenso intellettuale e morale, soprattutto durante la gioventù. "Dio è solo", diceva Thoreau, "ma il Diavolo no: ha un sacco di compagnia". [...]
La solitudine non è un'esperienza facile, e non è per tutti. "Io credo", diceva Thoreau, "che in generale gli uomini hanno ancora un po' paura del buio". [...]
Tratto da Internazionale, n. 789, 3 aprile 2009. Pubblicato con il permesso dell'editore