Cinque giorni
Il primo giorno mi parve brutta.
Tutto, mi parve brutto, quel primo giorno, anche se l’infinito equilibrio della mia mente lucidissima mi ripeteva che no, niente era veramente brutto, ma solo essenziale, funzionale, razionale.
Mi diceva, la mente cosciente, che l’universo attorno a me, tutto quello che mi restava, era esattamente come avrebbe dovuto essere.
Bianco, pulito, asettico… si, asettico… come mi apparve lei.
Quando hai passato il momento peggiore della tua vita, hai sentito la morte stringerti nel suo abbraccio, e divincolandoti le sei sfuggito per un pelo, ma solo per pochissimo, avresti bisogno di una bottiglia di cognac, un caminetto acceso, Mozart nel giradischi ed un seno enorme in cui confondere saliva e lacrime, sangue di piccoli morsi e sugo di cioccolata…
Ed invece no. Pareti bianche, luce accecante, lenzuola bianche, puzza di cloroformio, tende bianche, gelido letto cromato, ed una donna senza petto stretta in una divisa bianca e fredda allo sguardo più dei tubi del letto…
Ringrazi il cielo di non doverla toccare e la trovi brutta… decisamente brutta.
Oziosamente, penso che non so se mi pentirei, abbracciato da lei, di non essermi lasciato trascinare via dalla nera signora di prima.
Mi infila, con sadica efficienza aghi nelle vene e tubi dove non gradirei proprio, e scopro di averne anche altri, di tubi infilati nelle carni, rosati e flessuosi, dall’aspetto molliccio, come osceni, chilometrici nudi lombrichi.
Finisce il suo lavoro e va via, senza avermi rivolto lo sguardo senza avermi detto una parola.
Qualche porcheria ci deve essere, in quella bottiglia capovolta crocifissa a questo palo d’acciaio perché il sole tramonta in fretta, la notte passa veloce, benché insonne, ed è di nuovo mattina.
Non ho bisogno di pensarci. Lo so che stamattina non dovrò alzarmi per affrettarmi in ufficio, che la macchina non partirà, non partirà più perché è distrutta, e forse mai più nessuna macchina mi accompagnerà più da nessuna parte… Forse non ho più nemmeno le gambe, forse sono morto…
Lo schianto, quello mi ritorna bene alla mente, è stato proprio di serie A, di quelli che fanno vedere in TV… ma non mi riesce a decidere se fu colpa mia, o di quell’altro… ma certo ora non conta più.
Un acuto dolore alla coscia mi apre gli occhi di scatto. Meno male!... allora almeno una gamba ce l’ho ancora. E lei è lì col pungiglione in mano:
«Buongiorno! – mi fa – sono contento che abbia sentito l’iniezione!... teneva la gamba così abbandonata che pensavo fosse andata!...»
Sorride soddisfatta alla sua battuta, e mi sembra un ghigno… io questa cosa bianca la odio!
Ma mi ci dovrò abituare. L’infinito equilibrio della mia mente lucidissima mi dice che l’incidente che ho avuto è stato parecchio grave, come già previsto un nanosecondo prima dello schianto, e non sarà cosa facile né breve liberarsi di tutto questo freddo biancore insolente… mi servirà pazienza… e non serve lagnare.
Mi concedo solo una preghiera silenziosa, poi sarò un paziente modello:
«Signore, ti prego, fammela vedere il meno possibile, a questa, che lo so che l’odio è un peccato!».
L’ho sempre saputo di avere dei buoni addentellati, nelle alte sfere, o di essere fortunato, come dicono i miei miscredenti amici. Come sia, menomale!... quest’obbrobrio bianco si fa vedere solo l’indispensabile, devo riconoscerlo.
Viene, fa quello che deve fare, controlla, pungica, misura con velocità ed efficienza, mi lancia uno sguardo indagatore fortunatamente rapido e fila via. Non me la sento di lamentarmi.
Una volta al giorno, arriva il Primario, col codazzo delle sue code bianche. Guarda le carte che si accumulano nel mio dossier (ma non so chi le scriva), borbotta con gli altri e con la Caposala untuosa ed funzionante come un robot, e tanto per darsi un tono mi fa ogni volta un paio di domande di circostanza. Cretine come peggio non si potrebbe immaginare; tipo “come si sente oggi?...” oppure “Le infermiere fanno le brave con lei?...” manco non sapesse che non sento praticamente nulla, e che per quella cosa bianca sono null’altro che un baccalà da idratare!...
Ho deciso di fare il buono, e rispondo con un sorriso… o almeno credo. Non lo so, se sorrido davvero!...
I giorni dovevano essere tre, o forse quattro, quando venne la crisi. Questo me lo raccontarono dopo, quando tornai a casa, che allora non me ne accorsi, né del peggioramento, né del crollo imminente.
Fu di notte, penso, perché mi sembrava buio, ed arrivarono di corsa in quattro o cinque fra medici ed infermiere con quell’apparecchio che dà la scossa ed il carrello di emergenza. Ricordo che ero solo nella stanza perché quello dell’altro letto lo avevano portato via nel pomeriggio, non so se vivo o morto, ma evidentemente qualche sensore che avevo incollato addosso aveva dato l’allarme.
Accesero fortissimo le luci e si dettero un gran da fare intorno a me palpando, misurandomi e punzecchiandomi. Poi mi misero una maschera, e respirai meglio; me ne accorsi subito.
Che diamine, non potevano pensarci prima?... ma niente scossa con la macchina delle scosse.
In definitiva ci misero poco. Poi lasciarono lì la macchina delle scosse ed andarono via, finalmente abbassando le luci.
Forse mi appisolai, non me lo ricordo, ma non fu un sonno pesante. C’era qualcuno, sentivo una presenza silenziosa, vicino al letto, ma avevo paura di aprire gli occhi.
Poi, nel silenzio assoluto del reparto ospedaliero il respiro leggero della presenza prese forma di parole… smozzicate, indecise, ma ancora comprensibili:
«Dai, piccolo vecchietto mio, cerca di non morire… non adesso almeno!... per piacere!
è la prima volta che mi affidano un paziente in “stato critico” da sorvegliare, e non voglio che mi muori fra le braccia. Fa conto che io sia tua figlia, la tua amante, l’amica del cuore… ti prego, non morire, non adesso!... - una pausa lunga, come per trovare altre parole, ed infatti… - ecco!, ti ripeto che proprio non puoi morire adesso, devi farti necessariamente forza… tantissima forza!... è indispensabile!... e sai perché?... lo vuoi sapere?... perché domani è il mio onomastico, e non puoi farmi questo sgarbo.
Anzi… domani è il “nostro” onomastico!... perché sai?... anch’io mi chiamo Lucia come te, e stanotte è la notte più lunga dell’anno!... io ti starò vicina, e tu non muori, d’accordo?...».
Mi sforzai di socchiudere gli occhi, ma dall’umido non trasparve che la vaga immagine d’una uniforme biancastra, e richiusi le palpebre, rinunciando.
Mi parve però di sentire la mano destra più tiepida, e mi sembrò come bagnata.
Al pomeriggio del 13 dicembre 19.. la prognosi fu sciolta, ed io cominciai a guarire.
Era il quinto giorno del mio ricovero, e l’ospedale non mi sembrò più tanto brutto.
Ma come è noto l’uomo è una specie molto adattabile, e si abitua quasi a tutto.
Molto tempo dopo, quando ormai convalescente lasciai l’ospedale ebbi solo un attimo, per stare solo con Lucia, di cui ormai ero segretamente innamorato, e lei ne profittò per dirmi:
«Non dirmi che ti sembra strano, ma io devo ringraziarti, piccolo vecchietto mio!...»
E mi venne subito da risponderle:
«Si, lo so. Infatti io non sono morto per fare un piacere a te».
Mi sembra che diventasse tutta rossa, ma non posso dirlo con certezza; sapete?... noi vecchietti ci commuoviamo e lacrimiamo facilmente!.
Lucio Musto 29 ottobre 2009
Il primo giorno mi parve brutta.
Tutto, mi parve brutto, quel primo giorno, anche se l’infinito equilibrio della mia mente lucidissima mi ripeteva che no, niente era veramente brutto, ma solo essenziale, funzionale, razionale.
Mi diceva, la mente cosciente, che l’universo attorno a me, tutto quello che mi restava, era esattamente come avrebbe dovuto essere.
Bianco, pulito, asettico… si, asettico… come mi apparve lei.
Quando hai passato il momento peggiore della tua vita, hai sentito la morte stringerti nel suo abbraccio, e divincolandoti le sei sfuggito per un pelo, ma solo per pochissimo, avresti bisogno di una bottiglia di cognac, un caminetto acceso, Mozart nel giradischi ed un seno enorme in cui confondere saliva e lacrime, sangue di piccoli morsi e sugo di cioccolata…
Ed invece no. Pareti bianche, luce accecante, lenzuola bianche, puzza di cloroformio, tende bianche, gelido letto cromato, ed una donna senza petto stretta in una divisa bianca e fredda allo sguardo più dei tubi del letto…
Ringrazi il cielo di non doverla toccare e la trovi brutta… decisamente brutta.
Oziosamente, penso che non so se mi pentirei, abbracciato da lei, di non essermi lasciato trascinare via dalla nera signora di prima.
Mi infila, con sadica efficienza aghi nelle vene e tubi dove non gradirei proprio, e scopro di averne anche altri, di tubi infilati nelle carni, rosati e flessuosi, dall’aspetto molliccio, come osceni, chilometrici nudi lombrichi.
Finisce il suo lavoro e va via, senza avermi rivolto lo sguardo senza avermi detto una parola.
Qualche porcheria ci deve essere, in quella bottiglia capovolta crocifissa a questo palo d’acciaio perché il sole tramonta in fretta, la notte passa veloce, benché insonne, ed è di nuovo mattina.
Non ho bisogno di pensarci. Lo so che stamattina non dovrò alzarmi per affrettarmi in ufficio, che la macchina non partirà, non partirà più perché è distrutta, e forse mai più nessuna macchina mi accompagnerà più da nessuna parte… Forse non ho più nemmeno le gambe, forse sono morto…
Lo schianto, quello mi ritorna bene alla mente, è stato proprio di serie A, di quelli che fanno vedere in TV… ma non mi riesce a decidere se fu colpa mia, o di quell’altro… ma certo ora non conta più.
Un acuto dolore alla coscia mi apre gli occhi di scatto. Meno male!... allora almeno una gamba ce l’ho ancora. E lei è lì col pungiglione in mano:
«Buongiorno! – mi fa – sono contento che abbia sentito l’iniezione!... teneva la gamba così abbandonata che pensavo fosse andata!...»
Sorride soddisfatta alla sua battuta, e mi sembra un ghigno… io questa cosa bianca la odio!
Ma mi ci dovrò abituare. L’infinito equilibrio della mia mente lucidissima mi dice che l’incidente che ho avuto è stato parecchio grave, come già previsto un nanosecondo prima dello schianto, e non sarà cosa facile né breve liberarsi di tutto questo freddo biancore insolente… mi servirà pazienza… e non serve lagnare.
Mi concedo solo una preghiera silenziosa, poi sarò un paziente modello:
«Signore, ti prego, fammela vedere il meno possibile, a questa, che lo so che l’odio è un peccato!».
L’ho sempre saputo di avere dei buoni addentellati, nelle alte sfere, o di essere fortunato, come dicono i miei miscredenti amici. Come sia, menomale!... quest’obbrobrio bianco si fa vedere solo l’indispensabile, devo riconoscerlo.
Viene, fa quello che deve fare, controlla, pungica, misura con velocità ed efficienza, mi lancia uno sguardo indagatore fortunatamente rapido e fila via. Non me la sento di lamentarmi.
Una volta al giorno, arriva il Primario, col codazzo delle sue code bianche. Guarda le carte che si accumulano nel mio dossier (ma non so chi le scriva), borbotta con gli altri e con la Caposala untuosa ed funzionante come un robot, e tanto per darsi un tono mi fa ogni volta un paio di domande di circostanza. Cretine come peggio non si potrebbe immaginare; tipo “come si sente oggi?...” oppure “Le infermiere fanno le brave con lei?...” manco non sapesse che non sento praticamente nulla, e che per quella cosa bianca sono null’altro che un baccalà da idratare!...
Ho deciso di fare il buono, e rispondo con un sorriso… o almeno credo. Non lo so, se sorrido davvero!...
I giorni dovevano essere tre, o forse quattro, quando venne la crisi. Questo me lo raccontarono dopo, quando tornai a casa, che allora non me ne accorsi, né del peggioramento, né del crollo imminente.
Fu di notte, penso, perché mi sembrava buio, ed arrivarono di corsa in quattro o cinque fra medici ed infermiere con quell’apparecchio che dà la scossa ed il carrello di emergenza. Ricordo che ero solo nella stanza perché quello dell’altro letto lo avevano portato via nel pomeriggio, non so se vivo o morto, ma evidentemente qualche sensore che avevo incollato addosso aveva dato l’allarme.
Accesero fortissimo le luci e si dettero un gran da fare intorno a me palpando, misurandomi e punzecchiandomi. Poi mi misero una maschera, e respirai meglio; me ne accorsi subito.
Che diamine, non potevano pensarci prima?... ma niente scossa con la macchina delle scosse.
In definitiva ci misero poco. Poi lasciarono lì la macchina delle scosse ed andarono via, finalmente abbassando le luci.
Forse mi appisolai, non me lo ricordo, ma non fu un sonno pesante. C’era qualcuno, sentivo una presenza silenziosa, vicino al letto, ma avevo paura di aprire gli occhi.
Poi, nel silenzio assoluto del reparto ospedaliero il respiro leggero della presenza prese forma di parole… smozzicate, indecise, ma ancora comprensibili:
«Dai, piccolo vecchietto mio, cerca di non morire… non adesso almeno!... per piacere!
è la prima volta che mi affidano un paziente in “stato critico” da sorvegliare, e non voglio che mi muori fra le braccia. Fa conto che io sia tua figlia, la tua amante, l’amica del cuore… ti prego, non morire, non adesso!... - una pausa lunga, come per trovare altre parole, ed infatti… - ecco!, ti ripeto che proprio non puoi morire adesso, devi farti necessariamente forza… tantissima forza!... è indispensabile!... e sai perché?... lo vuoi sapere?... perché domani è il mio onomastico, e non puoi farmi questo sgarbo.
Anzi… domani è il “nostro” onomastico!... perché sai?... anch’io mi chiamo Lucia come te, e stanotte è la notte più lunga dell’anno!... io ti starò vicina, e tu non muori, d’accordo?...».
Mi sforzai di socchiudere gli occhi, ma dall’umido non trasparve che la vaga immagine d’una uniforme biancastra, e richiusi le palpebre, rinunciando.
Mi parve però di sentire la mano destra più tiepida, e mi sembrò come bagnata.
Al pomeriggio del 13 dicembre 19.. la prognosi fu sciolta, ed io cominciai a guarire.
Era il quinto giorno del mio ricovero, e l’ospedale non mi sembrò più tanto brutto.
Ma come è noto l’uomo è una specie molto adattabile, e si abitua quasi a tutto.
Molto tempo dopo, quando ormai convalescente lasciai l’ospedale ebbi solo un attimo, per stare solo con Lucia, di cui ormai ero segretamente innamorato, e lei ne profittò per dirmi:
«Non dirmi che ti sembra strano, ma io devo ringraziarti, piccolo vecchietto mio!...»
E mi venne subito da risponderle:
«Si, lo so. Infatti io non sono morto per fare un piacere a te».
Mi sembra che diventasse tutta rossa, ma non posso dirlo con certezza; sapete?... noi vecchietti ci commuoviamo e lacrimiamo facilmente!.
Lucio Musto 29 ottobre 2009