Byte
Cronache del Byte
«Nonno, ma davvero, com’è nato il Byte?...»
Il vecchio mi sorride sornione.
E’ sempre contento, quando può raccontare qualcosa, con un uditorio interessato. Ed è contento quando gli faccio le domande “impiccione” come dice nel suo napoletano liso ed ormai quasi del tutto dimenticato.
Forse gli piace di sforzarsi e pensare… come ha sempre fatto nella sua lunga vita, ed ora sempre meno, sempre più raramente…
«Perché da giovane, i tuoi raccontini li finivi spesso con quel ritornello: “quelli erano i tempi di quando il Byte già c’era, ma non sapeva ancora di chiamarsi così”…».
Il nonno è quasi pronto, si sta concentrando per l’ “entrata” a sorpresa. E’ nel suo stile.
«Naturalmente, come tutte le cose create, il Byte è nato da un seme! - si ferma per valutare l’impatto del suo esordio sull’attenzione di noi ragazzi – un semplice seme di cotone!...»
Poi, come suo solito, si ferma pensoso.
Il più sembra fatto; la copertina, il titolo, l’esteriorità della storia.
Il nonno già non parla più per noi, ma rivanga i suoi ricordi, si perde nella sua filosofia, si culla fra sogni e malinconia, dietro il filo del pensiero, sottile ormai, ma lucido ancora.
Molte cose nel mondo nascono da un seme, un germe nascosto ed invisibile, microscopico.
Ed all’inizio sembrano altro, e sono affatto diverse da quelle che saranno, ed è impossibile associarle.
Ma gradualmente il seme diviene bruco e crisalide e immagine.
Così la bollicina dell’acqua minerale che nasce da una molecola ribelle di gas che riesce ad evadere dalla sua prigione liquida e sollecita e spinge le compagne ad aggregarsi, e quelle più grosse e tumultuose della pentola sul fuoco che si affollano attorno alla infinitesima impurità del liquido, pietra di scandalo e cellula sovversiva che unisce le particelle irrequiete a che esplodano in una rivoluzione gassosa…
E i viventi tutti, che originano da un atto d’amore, immateriale e bellissimo, e un incontro creativo, ed un uovo, un embrione, una larva, un incompleto modello, ed infine un neonato che si schiude al suo mondo.
Come dire dove finisce il desiderio e comincia la materia, dove nasce la vita e dove sboccia la coscienza, dove il progetto diviene realtà?
«… naturalmente è stato così anche per il byte!...»
il nonno è tornato in terra per un momento, ma solo a sfiorarla che con la mente è già lontano di nuovo.
Chissà dove davvero sia cominciata, chi è stato per primo ad inventare una codifica ordinata ed elementare delle cose… il primo concetto di byte… ma una data certa ce l’abbiamo, da cui partire:
1801 invenzione del telaio meccanico Jacquard a schede perforate, o forse quella della prima pianola, nel 1897.
Il concetto era già quello del byte di oggi, una serie ordinata di segni per indicare un valore: il disegno di una riga dell’ordito, una nota, un numero.
Tante serie una dietro l’altra a formare un tessuto, una sinfonia… ecco qui! Qui nasce l’idea geniale, la novità.
Stabilire uno standard per cui una fila di segni (allora colonne di buchini su un cartoncini, ora bit in “on” o “off”) significhi qualcosa “di per sé”, che poi possa rappresentare qualsiasi cosa ci occorra.
Il significato intrinseco fu immediato: lettere, numeri, simboli speciali. Un insieme “alfanumerico”, fu detto.
Il primo byte si chiamò colonna. La colonna della “scheda perforata”.
Dieci posizioni sovrapposte per rappresentare i numeri, ed altre due, “soprelevate” per i segni “più” e “meno”, per le lettere, i simboli, i caratteri speciali.
La “Colonna”, era assai più potente del byte di oggi, perché contro le attuali otto posizioni di on/off, allora ce ne erano addirittura dodici di si/no foro.
Ma in pratica non furono mai sfruttate tutte; troppi fori sulla stessa colonna indebolivano il supporto di cartone e con i sistemi di trascinamento e lettura meccanica di allora nascevano problemi.
Comunque la scheda perforata resistette a lungo, perché molto semplice ed immediata.
Anche le memorie dei primi calcolatori elettronici, ed i primi supporti a nastro magnetico mantennero la struttura “Card Image” come si diceva allora, ed ogni “posizione” di memoria equivaleva ad una colonna della scheda perforata.
Ma questo comportava una gestione “bidimensionale” della memoria.
Funzionavano benissimo, quei calcolatori, ma l’hardware (il termine fu adottato allora) risultava molto complesso e costoso.
Qualcuno inventò allora la memoria “a voci”, in pratica abbattendo ogni colonna e mettendole in fila indiana, come le larve della processionaria.
E pensò bene di ridurre le possibilità a solo dieci valori, i numerici. In gruppi di dieci (anzi dieci e mezzo, con l’undicesima cifra monca, utile solo a dire il segno: più, meno, alfanumerico) formarono la “voce”; un numero di dieci cifre con segno.
Era proprio un aborto di byte, con la limitazione delle dieci cifre e la bruttura che per l’alfanumerico occorreva quello strano segno, né più ne meno e lettere e simboli occupavano una coppia di cifre ciascuno ma segnava grossi progressi tecnici.
Le operazioni erano decimali, significato univoco della voce, maggior velocità di calcolo, molta meno memoria inutilizzata! … non vi ho detto che nella memoria di quei calcolatori grossi come camion ogni bit (il nome già c’era) occupava un piccolissimo anellino di ferrite dentro cui scorrevano ben tre fili di rame dorato?
«Capite come il byte già c’era?...» il nonno si risveglia dai suoi pensieri e ricorda che sta raccontando a noi «C’era, e faceva le stesse cose che fa oggi, anche se in modo diverso!... proprio come un bambino nella pancia della mamma che mangia senza masticare e inghiottire, e respira acqua come un pesciolino, e vede anche se ha gli occhi chiusi, e soffre e gode e gioisce insieme alla mamma, anche se sta ancora rinchiuso in quello stretto sacco… è vivo, e lo vogliono abortire!...».
Il nonno si è perso dietro chissà quale tristezza, ma presto ritorna a parlare del Byte.
«…Che un bel giorno fece l’ultimo sforzo e nacque nella sua forma definitiva, quella che conosciamo oggi e nessuno si sogna di cambiare.»
Otto sole possibilità con tutte le possibilità. 256 combinazioni in tutto, che occorre far bastare per ogni esigenza.
«Si, nonno, ma quand’eri bambino tu – Francesco, il saputello, non ha ancora ben sviluppato il senso del tempo – l’ EmmeByte… , com’era fatto?... ed i megapixel?... nel cellulare che mi ha portato BabboNatale, la risoluzione delle foto è 6,8!... com’era la risoluzione della tua macchina fotografica?... mi ha detto mamma che era senza telefono, perché quello, il telefono, non lo avevano ancora inventato!... che chissà poi come facevate senza!...».
Il nonno ha ora gli occhi chiusi. Fa sempre finta di essere addormentato, quando non vuole risponderci… e tenersi per se i misteri del vecchio byte!
Lucio Musto 2 gennaio 2007 parole 1101
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