Canto undicesimoDi Craxi ancor gli orribili guaiti
ci accompagnaron per gran tempo, quando
prendemmo ad esplorare quei bei siti,
ed ora a manca, ora a destra girando
nel dedalo di stanze e corridoi,
ogni pietà residua messa al bando,
ad uno specchio giunsi, quale voi
di certo non avete mai veduto,
che fatto avrìa felice Nanni Loi,
da cui proruppe un grido: “Aiuto! Aiuto!”
con voce sì melensa e zuccherosa
che mi pareva musica di liuto,
“toglietemi la pena vergognosa!”
“Ti chiederai perché già non rifletta
codesto specchio mai nessuna cosa
si specchi in esso. Questo è Gianni Letta
che in vita poco o niente sul suo amico
ha riflettuto Silvio, e una fighetta
di toni e modi dolci come un fico
fu, e di Walter Veltroni l’alter ego
da amico nel trattar sempre il nemico,
che dir sa solo ‘Tante grazie’ e ‘Prego’
oppur ‘Ma si figuri’ e si permette
ogni viltà senza nessun diniego,
ed ora, come in vita, non riflette”.
Lo specchio, che piangeva a profusione,
come fanno gli agnelli e le caprette,
abbandonammo e in un ampio salone
lussuoso entrammo, dove un frigidario
nel centro c’era, e dentro due persone
nel ghiaccio immerse come in un acquario.
E a me Di Pietro “Questi masnadieri
son l’uno del Berlusca il segretario,
che in vita si chiamò Gonfalonieri,
e l’altro, dalla faccia e gli occhi foschi,
fu il principe di tutti i faccendieri
e il gran maestro degli affari loschi:
mira Dell’Utri, che fu anche mafioso
eppur la fece franchi; che si imboschi
qui senza pena e che il malavitoso
ancora possa fare da impunito
non creder, ché dal ghiaccio tutto ascoso
è da un gelo mortale rivestito
senza che più lo scaldi il caldo sole”.
Parevano due statue di granito
ma dalle membra, viola come viole,
e dagli sguardi carichi di orrore,
come chi ha in sorte quello che non vuole,
e dal perpetuo, orribile tremore,
capivi come il corpo vivo fosse
e un po’ come invocasse di calore.
Però Tonino punto si commosse
e non gli dedicò neanche una prece:
“Costoro in vita fecer tali mosse
degne davvero del peggior Capece”,
disse, e poi: “Fra non molto arriveremo
da quel che più di tutti male fece”.
“Tonino, se ci penso, io già tremo,
che per costui già in vita io provavo
un tal ribrezzo, d’umanità scemo,
quale l’americano per lo slavo,
e se devo incontrar quella canaglia
è meglio che la bocca qui mi lavo
perché, chi da ira è afflitto, sempre sbaglia”
dissi, e tosto sgranai un tale rosario
qual non si ode a Loreto e neanche a Graglia.
“Ah, sozzo Silvio, ladro, mercenario,
che un quarto di italiani hai fatto fessi,
cinico come un prete, tu, sicario
della giustizia, da gettar nei cessi,
uomo di malafede e di arroganza,
o porco, teco se potessi avessi
stare un’oretta solo in una stanza
ti avrei fatto sparire in un baleno
ventotto denti e tutta la baldanza!”
“La sana indignazione tieni a freno
che ben comprendo come tu ti senti”
Di Pietro consigliò cheto e sereno
e ripartimmo tesi ed impazienti,
tanto che pel piacer che pregustava
e per la smania, digrignavo i denti.
Affrontammo una scala che portava
ai piani superiori, in ampie sale,
simile a quelle in cui Diana piantava
le corna sulla fronte assai regale
dell’orecchiuto Carlo, suo consorte.
Malgrado il lusso, un gran lezzo di male
stagnava, di putredine e di morte,
tanto che il cuore mi tremò e alla spalla
di Antonio mi aggrappai, gemendo forte:
“La puzza qui è peggior che nella stalla,
ove si spande secondo natura,
ma qui il mio olfatto sente, e già non falla,
un odore che sa di spazzatura
morale, di squilibrio e di follia
che per l’eternità resiste e dura,
né posso definir che cosa sia,
né che lo possa alcun latro presumo”.
“Parto non è della tua fantasia
bensì del nostro Silvio il buon profumo
che da grande distanza già ci appesta,
come fa in un incendio l’acre fumo
quando dilaga ner per la foresta”.
Perso già avevo tutto il mio entusiasmo
e la mia camminata meno presta
divenne, e in preda a un interiore orgasmo
andavo avanti, e la pazzia mia grande
non elogiavo, come fece Erasmo.
“Codesto lezzo che ovunque si spande”
mi rincuorò Tonino, “orsù sopporta,
perché ti accingi ad un’impresa grande
che mai persona fece, viva o morta,
prima di te”, ed arrivammo allora
davanti ad un’enorme, lignea porta
su cui era scolpita la Signora
vestita in nero con l’orrida falce
che mai nessuno al mondo non ignora,
brutta quanto lo fu Luciano Salce,
che avea ricurve le sue adunche dita
come pene di vecchio o corna d’alce.
“Ohimé, Tonino, penso che è finita
la mia avventura qui, ché non mi regge
oltre più il cuore, e ci lascio vita”
dissi tra una gragnola di scorregge,
ma impavido Di Pietro il cor mi vinse
con un’occhiata che dettava legge
e la maniglia della porta spinse.