Fantascienza dedicata a chi scrive nella convinzione che il farlo renda speciali
Sono ormai ottanta anni che sto morendo o, per essere più precisi, che mi sento morire, e so che dovrei tirare le somme di una vita trascorsa ad aspettare una vita che fosse migliore per me. Quelle rare volte che ho incontrato l’armonia ho immaginato che fosse la brutta copia della felicità che tendeva tranelli, ma ora che le cose stanno scivolando via rapide dai miei desideri… intuisco di non aver saputo riconoscere i segni davanti ai quali gli eventi si sono succeduti. Ho conosciuto l’amore che non so descrivere, la vanità del compiacimento con cui l’intelligenza lascia il posto alla stupidità del non voler considerare quanto il legame che unisce ogni cosa esiga una costante attenzione al senso che hanno i suoi nodi. Quante volte, pur vedendo, mi sono rifiutato di guardare, preferendo il credere al conoscere soltanto perché quel conoscere sarebbe stato troppo doloroso. Eppure, ora che devo lasciare la presa, sento che la sofferenza del non riuscire a trarre una sintesi da tutto il mio vagare tra le lacrime, di gioia e di dolore, è peggiore del non aver voluto far soffrire l’odioso in me che ora piange, per aver voluto regalare ciò che ancora non capisco, attraverso il sacrificio dei miei difetti migliori. Mi chiedo perché ho scritto e per chi, quando avrei dovuto, prima di farlo, conoscere le conseguenze della leggerezza con cui si rifiuta l’abbraccio di un Mistero che pretende senza chiedere nulla. Morire stringendo nel pugno l’ultima penna mi pare l’unica cosa utile della mia vita. Traccerò, col suo inchiostro, due linee nere sotto ai miei occhi, e mi lascerò andare nella furiosa mischia di una partita già persa.