Oggi ricorre il 70° anniversario della morte di Tagore. Come definire quest’uomo?
Un filosofo? Un poeta? Un politico?
Lasciamo stare le definizioni. Quello che è certo è che è stato un uomo dal pensiero forte, all’interno del cui pensiero la riflessione sull’uomo e sul bene erano legate in modo diretto ai problemi della realtà concreta oltre che ai problemi dello spirito.
Ne è un esempio il modo in cui affronta la questione dei rapporti tra India ed Inghilterra: un proposito di conciliazione portato avanti attraverso una trasformazione culturale intimamente legata ad una precisa visione dell’uomo.
Questa filosofia è espressa nell’Asilo di Pace, in Indiano Śantiniketan . Si tratta di una filosofia pervasa da un’antimodernità non cieca e totalitaria, ma selettiva: non sempre il progresso è bene, ma resta una realtà inevitabile che può essere benefica se ben diretta.
La potenzialità benefica sta nella portata libertaria del progresso, ed è in questo elemento che Tagore trova un primo motivo che lo porta a ricercare un’integrazione tra la cultura indiana e quella inglese, di cui però condanna il materialismo onnipervasivo.
Il suo pensiero si fonda sulle antiche tradizioni induiste aprendosi nel contempo ad altre tradizioni culturali . Alla sua base sta la contemplazione della natura inquanto luogo di manifestazione del divino. Come nella natura assoluto e relativo, uno e molteplice, divino e terreno sono uniti, così devono esserlo nell’uomo. Il fine della vita sta nel conciliare le differenze anziché nel divaricarle.
Insomma, nelle sue poesie come nella sua vita attiva, si esprime una ricerca dell’armonia e della bellezza, tanto ostinata da integrare in se il dolore come sua parte non contraddittoria.