Totonno
« ‘on Alfré, alla vostra cortesia, tre culi e mezzo di cazzi ubriachi?...»
La strana espressione quasi strillata, a disturbare il sommesso mormorio dei grandi elaboratori mi scuote, trovandomi del tutto impreparato, dal noioso ed impegnativo incastro delle urgenze che sto cercando di realizzare pianificando il lavoro di domani.
Mi scuote la grida, ma non afferro subito l’apparente insipienza della frase. Prima riconosco la voce, che è quella di Antonio Pighetti l’esperto operatore anziano del reparto, e poi la crudezza dei termini. Antonio Pighetti, il nostro “Totonno”, non è certo aduso ad un certo linguaggio, e parole meno che appropriate non gliene ho mai intese dire, nemmeno nelle più accese riunioni sindacali.
Alzo perciò lo sguardo dalla stucchevole pianificazione un po’ stupito, ma soprattutto incuriosito.
Che mai significheranno quelle parole di colore oscuro?... Guardo verso l’abituale postazione di “Don” Alfredo, il nostro solerte e bovino uomo di fatica, come sempre immerso in misteriosi calcoli probabilistici sull’uscita di qualche numero a lotto, magari misteriosamente indicato dall’ “ispirato” del suo vicolo.
Il buon uomo ha inteso perfettamente la richiesta di Totonno, e dopo solo un attimo di perplessità ha lasciato la sua seggiola, e va lemme lemme (è il suo unico modo di andare!), verso il magazzino della modulistica. Mi tocca fare un piccolo sforzo mentale, ma ci arrivo anch’io a comprendere i funambolismi fra questi due maestri della cabala, delle estrazioni, delle simbologie del banco Lotto
Tre culi e mezzo… sono sette pacche, considerando che ogni deretano ne conta due, l’organo sessuale maschile “fa” 29, e 14 è il numero dell’ubriaco. Don Alfredo è l’addetto a prelevare la carta da stampare… Allora sette pacchi di moduli modello 29/14… i cedolini-paga delle pensioni!...
Ed infatti questo è uno dei lavori programmati per oggi!
A raccontare di Antonio Pighetti, buon’anima, si potrebbero riempire volumi di storia, di saggistica, di sapienzialità spicciola, popolare quanto profonda, tomi di morale cristiana assolutamente laica e testi universitar di sociologia applicata alla logica… ed alla concreta possibilità di dignitosa sopravvivenza per una famiglia monoreddito con sette, otto figli in cui entra solo lo stipendio (ricco, nei tempi dei miei ricordi) di un normale impiegato d’ordine… di ruolo “B”, come si diceva all’epoca, sia pure integrato dai numerosi “assegni familiari” e dallo straordinario in ufficio, che allora lo si faceva sul serio, e veniva regolarmente pagato.
Ma non voglio parlare, non questa volta, dei funambolismi di questo mio collaboratore ammirevole per arrivare a fine mese.
Questa volta voglio parlare di “Caponata Napoletana”, o meglio di “una” caponata, che rimase celebre nei racconti romanzati che poi ne derivavano, e la voglio raccontare come testimonianza di quei tempi eroici in cui “Il Byte già c’era, ma non sapeva ancora di chiamarsi così”
C’era stata maretta, quella sera, ed il “Giornale DR” elaborazione decadale della “Procedura Depositi a Risparmio” aveva deciso di dare i numeri. A quei tempi c’era quasi un rapporto di fisicità fra programmatori ed operatori che volevano far funzionare i Computer e questi che cercavano di liberarsi del giogo degli umani e fare autonomamente il loro comodo.
Era stata dura, ma ce l’avevamo fatta; avevamo vinto noi e l’EOJ (End Of Job) senza codici di errori aveva suggellato il trionfo. Ma erano le tre passate, mentre il nostro turno avrebbe dovuto concludersi alle diciassette.
Nessuno si spaventi; in quell’età dell’oro le cose funzionavano così: si andava a casa a lavoro concluso, non a scadenza sindacale!
Comunque eravamo stanchi e soddisfatti, e fra poco avrebbe cominciato ad albeggiare. Ma anche affamati; inutile tornare a casa e disturbare il giusto riposo delle nostre mogli.
Andammo quindi a rifocillarci “ ‘n terra Margellina” con una onesta e meritata “Caponata Napoletana”.
Occorre spiegare, per i forestieri, che all’epoca dei fatti il porticciolo turistico di Mergellina, nella sua parte verso la radice di Posillipo ed il Sea Garden era riservato alle barche a remi, o al più col microscopico fuoribordo che si riusciva ad azionare solo oltre la scogliera.
Quindi lì non c’era puzza di nafta o benzina; e la stretta banchina del moletto si animava di piccoli tavolini di ferro sin dalla sera, quando le reti stese li ad asciugare venivano rimessate sulle barche.
E su quei tavolinetti, gli stessi pescatori, da improvvisati ristoratori servivano quelle delizie care ai napoletani, vocatamente nottambuli per spirito romantico o perché spinti fuori dai letti dal gran caldo estivo…
e di orario di chiusura non se ne parlava!... i pescatori stavano lì a sorvegliare le barche, e la zuppa di cozze, i polipo lesso, la linguina coi granchi di scoglio (gli squisiti “ranci felloni”) erano disponibili fino all’alba ed oltre… fin quando era ora di riprendere il mare.
Ma su di tutto, regnava la “Caponata Napoletana”, sposa ideale del vino bianco di Terzigno.
Eccola qua: La caponata consiste in una fresella nera appoggiata su un lettino di foglie di lattuga fresca… o di incappucciata, se il cliente preferisce.
La fresella, sempre come delucidazione per i forestieri, è la metà (superiore o inferiore… ne discutiamo un’altra volta che sennò la facciamo lunga!) di una ciambella di pane integrale (“molto” integrale e spesso composto anche di farina di grano duro) ripassata in forno perché biscotti, assumendo una bella colorazione tabacco.
Questa fresella va leggermente “spugnata” cioè appena bagnata d’acqua cosicché ammorbidisca alquanto rimanendo comunque croccante, prima di essere poggiata sull’insalata.
La caratteristica che faceva unica la caponata “ ‘n terra Margellina” è che la spugnatura avveniva direttamente nell’acqua di mare, quella del porticciolo… e nessuno temeva contaminazioni e contagi.
Su questa base… ci andavano molte cose preziose. Innanzi tutto del pomodoro da insalata tagliato al momento e condito con olio, basilico, origano, aglio e cipolla dolce, quindi le olive nere di Gaeta, i carciofini sott’olio e la papaccella (peperone rosso molto sodo conservato sott’aceto) , magari con l’aggiunta di qualche sottaceto fatto in casa dalle mogli dei pescatori e le alici sotto sale disiliscate a mare e ammorbidite nell'olio.
Su questo, e naturalmente già la fresella non si vedeva più, ci andavano le cozze, qualche vongola, il polipo verace lesso tagliato a fettine , qualche fasolara, una chela di rancio fellone salvato dal sugo delle linguine, gli scuncigli (i murici) e le lumachine di mare in abbondanza.
Ancora un generoso filo d’olio, ed il piatto era pronto per il cliente. A tavola, rigorosamente comandato dal gusto del cliente, l’aggiunta del “rosso” (‘o russo, in dialetto).
Cosa fosse esattamente quest’intruglio, io non l’ho mai saputo.
Un liquido oleoso rosso intenso, forte come la paprica, odoroso di mare e di monti assieme, semitrasparente… e prezioso. ‘nterra Margellina non te lo lasciavano a tavola; il gestore te ne serviva a tuo comando… e lo riportava via…
E così quella notte, mentre il sole nuovo appena tingeva di luce il cielo dietro “’a muntagna”, svelando la sagoma familiare del Monte Somma e del Vulcano quiescente, Totonno, io, un gagliardo programmatore ed un altro operatore andammo a rinfrancarci e celebrare la soddisfazione di un lavoro ben fatto.
E gustandoci la caponata ripercorrevamo le fasi di quell’epica battaglia contro l’elaboratore testone e capriccioso, e ci esaltavamo della nostra bravura lagnandoci dei pochi strumenti messi a nostra disposizione, delle paghe sempre troppo basse per le nostre qualità, ed i modesti successi sindacali… insomma i soliti discorsi dei lavoratori in pausa.
Ma Totonno, l’ho già detto che aveva pensieri familiari del tutto particolari?... si infervorava più di noi altri tutti messi assieme, tormentando spesso il suo celebre inseparabile cappello ed agitandosi sulla traballante sediola di ferro in precaria stabilità su quell’acciottolato irregolare.
Solo troppo tardi mi accorsi (o forse già lo avevo visto prima ed avevo lasciato correre?...) che di punto in punto i miei due colleghi spostavano il tavolinetto verso Totonno, di un nonnulla alla volta, ma sufficiente a che egli spostasse, nella foga del discorrere istintivamente indietro la sua seggiola… e Totonno dava le spalle a mare!...
La Caponata era ormai smaltita ed il vino finito, e già gustavamo il secondo nocillo, quando nell’aria ormai chiara ci completò la scena. L’ultimo millimetro di banchina fu perso dal piede della seggiola, e con grande scompostezza Totonno rovinò in mare fra le risa scompisciate dei due malandrini colleghi e… temo anche le mie, poi che è difficile non sghignazzare a certi spettacoli!
Lui, Totonno, bestemmiava come un veneto, e nel frattempo rideva di sé stesso e della grottesca situazione, in fondo contento di essere al centro dell’attenzione nostra, ma anche degli astanti, plaudenti e generosi di commenti sarcastici e di brindisi riparatori.
Lo feci accompagnare a casa in tassì, avvolto come un salame in una coperta impermeabile generosamente prestata dall’Oste-pescatore probabilmente non nuovo a queste”prestazioni estreme” nel suo infido spazio di ristoro in riva al mare.
Così si esorcizzava il lavoro e ci si divertiva quando ancora eravamo ragazzi alla conquista del mondo!
Lucio Musto 13 ottobre 2011
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Storie di quando il Byte già c’era,
ma non sapeva ancora di chiamarsi così
ma non sapeva ancora di chiamarsi così
« ‘on Alfré, alla vostra cortesia, tre culi e mezzo di cazzi ubriachi?...»
La strana espressione quasi strillata, a disturbare il sommesso mormorio dei grandi elaboratori mi scuote, trovandomi del tutto impreparato, dal noioso ed impegnativo incastro delle urgenze che sto cercando di realizzare pianificando il lavoro di domani.
Mi scuote la grida, ma non afferro subito l’apparente insipienza della frase. Prima riconosco la voce, che è quella di Antonio Pighetti l’esperto operatore anziano del reparto, e poi la crudezza dei termini. Antonio Pighetti, il nostro “Totonno”, non è certo aduso ad un certo linguaggio, e parole meno che appropriate non gliene ho mai intese dire, nemmeno nelle più accese riunioni sindacali.
Alzo perciò lo sguardo dalla stucchevole pianificazione un po’ stupito, ma soprattutto incuriosito.
Che mai significheranno quelle parole di colore oscuro?... Guardo verso l’abituale postazione di “Don” Alfredo, il nostro solerte e bovino uomo di fatica, come sempre immerso in misteriosi calcoli probabilistici sull’uscita di qualche numero a lotto, magari misteriosamente indicato dall’ “ispirato” del suo vicolo.
Il buon uomo ha inteso perfettamente la richiesta di Totonno, e dopo solo un attimo di perplessità ha lasciato la sua seggiola, e va lemme lemme (è il suo unico modo di andare!), verso il magazzino della modulistica. Mi tocca fare un piccolo sforzo mentale, ma ci arrivo anch’io a comprendere i funambolismi fra questi due maestri della cabala, delle estrazioni, delle simbologie del banco Lotto
Tre culi e mezzo… sono sette pacche, considerando che ogni deretano ne conta due, l’organo sessuale maschile “fa” 29, e 14 è il numero dell’ubriaco. Don Alfredo è l’addetto a prelevare la carta da stampare… Allora sette pacchi di moduli modello 29/14… i cedolini-paga delle pensioni!...
Ed infatti questo è uno dei lavori programmati per oggi!
A raccontare di Antonio Pighetti, buon’anima, si potrebbero riempire volumi di storia, di saggistica, di sapienzialità spicciola, popolare quanto profonda, tomi di morale cristiana assolutamente laica e testi universitar di sociologia applicata alla logica… ed alla concreta possibilità di dignitosa sopravvivenza per una famiglia monoreddito con sette, otto figli in cui entra solo lo stipendio (ricco, nei tempi dei miei ricordi) di un normale impiegato d’ordine… di ruolo “B”, come si diceva all’epoca, sia pure integrato dai numerosi “assegni familiari” e dallo straordinario in ufficio, che allora lo si faceva sul serio, e veniva regolarmente pagato.
Ma non voglio parlare, non questa volta, dei funambolismi di questo mio collaboratore ammirevole per arrivare a fine mese.
Questa volta voglio parlare di “Caponata Napoletana”, o meglio di “una” caponata, che rimase celebre nei racconti romanzati che poi ne derivavano, e la voglio raccontare come testimonianza di quei tempi eroici in cui “Il Byte già c’era, ma non sapeva ancora di chiamarsi così”
C’era stata maretta, quella sera, ed il “Giornale DR” elaborazione decadale della “Procedura Depositi a Risparmio” aveva deciso di dare i numeri. A quei tempi c’era quasi un rapporto di fisicità fra programmatori ed operatori che volevano far funzionare i Computer e questi che cercavano di liberarsi del giogo degli umani e fare autonomamente il loro comodo.
Era stata dura, ma ce l’avevamo fatta; avevamo vinto noi e l’EOJ (End Of Job) senza codici di errori aveva suggellato il trionfo. Ma erano le tre passate, mentre il nostro turno avrebbe dovuto concludersi alle diciassette.
Nessuno si spaventi; in quell’età dell’oro le cose funzionavano così: si andava a casa a lavoro concluso, non a scadenza sindacale!
Comunque eravamo stanchi e soddisfatti, e fra poco avrebbe cominciato ad albeggiare. Ma anche affamati; inutile tornare a casa e disturbare il giusto riposo delle nostre mogli.
Andammo quindi a rifocillarci “ ‘n terra Margellina” con una onesta e meritata “Caponata Napoletana”.
Occorre spiegare, per i forestieri, che all’epoca dei fatti il porticciolo turistico di Mergellina, nella sua parte verso la radice di Posillipo ed il Sea Garden era riservato alle barche a remi, o al più col microscopico fuoribordo che si riusciva ad azionare solo oltre la scogliera.
Quindi lì non c’era puzza di nafta o benzina; e la stretta banchina del moletto si animava di piccoli tavolini di ferro sin dalla sera, quando le reti stese li ad asciugare venivano rimessate sulle barche.
E su quei tavolinetti, gli stessi pescatori, da improvvisati ristoratori servivano quelle delizie care ai napoletani, vocatamente nottambuli per spirito romantico o perché spinti fuori dai letti dal gran caldo estivo…
e di orario di chiusura non se ne parlava!... i pescatori stavano lì a sorvegliare le barche, e la zuppa di cozze, i polipo lesso, la linguina coi granchi di scoglio (gli squisiti “ranci felloni”) erano disponibili fino all’alba ed oltre… fin quando era ora di riprendere il mare.
Ma su di tutto, regnava la “Caponata Napoletana”, sposa ideale del vino bianco di Terzigno.
Eccola qua: La caponata consiste in una fresella nera appoggiata su un lettino di foglie di lattuga fresca… o di incappucciata, se il cliente preferisce.
La fresella, sempre come delucidazione per i forestieri, è la metà (superiore o inferiore… ne discutiamo un’altra volta che sennò la facciamo lunga!) di una ciambella di pane integrale (“molto” integrale e spesso composto anche di farina di grano duro) ripassata in forno perché biscotti, assumendo una bella colorazione tabacco.
Questa fresella va leggermente “spugnata” cioè appena bagnata d’acqua cosicché ammorbidisca alquanto rimanendo comunque croccante, prima di essere poggiata sull’insalata.
La caratteristica che faceva unica la caponata “ ‘n terra Margellina” è che la spugnatura avveniva direttamente nell’acqua di mare, quella del porticciolo… e nessuno temeva contaminazioni e contagi.
Su questa base… ci andavano molte cose preziose. Innanzi tutto del pomodoro da insalata tagliato al momento e condito con olio, basilico, origano, aglio e cipolla dolce, quindi le olive nere di Gaeta, i carciofini sott’olio e la papaccella (peperone rosso molto sodo conservato sott’aceto) , magari con l’aggiunta di qualche sottaceto fatto in casa dalle mogli dei pescatori e le alici sotto sale disiliscate a mare e ammorbidite nell'olio.
Su questo, e naturalmente già la fresella non si vedeva più, ci andavano le cozze, qualche vongola, il polipo verace lesso tagliato a fettine , qualche fasolara, una chela di rancio fellone salvato dal sugo delle linguine, gli scuncigli (i murici) e le lumachine di mare in abbondanza.
Ancora un generoso filo d’olio, ed il piatto era pronto per il cliente. A tavola, rigorosamente comandato dal gusto del cliente, l’aggiunta del “rosso” (‘o russo, in dialetto).
Cosa fosse esattamente quest’intruglio, io non l’ho mai saputo.
Un liquido oleoso rosso intenso, forte come la paprica, odoroso di mare e di monti assieme, semitrasparente… e prezioso. ‘nterra Margellina non te lo lasciavano a tavola; il gestore te ne serviva a tuo comando… e lo riportava via…
E così quella notte, mentre il sole nuovo appena tingeva di luce il cielo dietro “’a muntagna”, svelando la sagoma familiare del Monte Somma e del Vulcano quiescente, Totonno, io, un gagliardo programmatore ed un altro operatore andammo a rinfrancarci e celebrare la soddisfazione di un lavoro ben fatto.
E gustandoci la caponata ripercorrevamo le fasi di quell’epica battaglia contro l’elaboratore testone e capriccioso, e ci esaltavamo della nostra bravura lagnandoci dei pochi strumenti messi a nostra disposizione, delle paghe sempre troppo basse per le nostre qualità, ed i modesti successi sindacali… insomma i soliti discorsi dei lavoratori in pausa.
Ma Totonno, l’ho già detto che aveva pensieri familiari del tutto particolari?... si infervorava più di noi altri tutti messi assieme, tormentando spesso il suo celebre inseparabile cappello ed agitandosi sulla traballante sediola di ferro in precaria stabilità su quell’acciottolato irregolare.
Solo troppo tardi mi accorsi (o forse già lo avevo visto prima ed avevo lasciato correre?...) che di punto in punto i miei due colleghi spostavano il tavolinetto verso Totonno, di un nonnulla alla volta, ma sufficiente a che egli spostasse, nella foga del discorrere istintivamente indietro la sua seggiola… e Totonno dava le spalle a mare!...
La Caponata era ormai smaltita ed il vino finito, e già gustavamo il secondo nocillo, quando nell’aria ormai chiara ci completò la scena. L’ultimo millimetro di banchina fu perso dal piede della seggiola, e con grande scompostezza Totonno rovinò in mare fra le risa scompisciate dei due malandrini colleghi e… temo anche le mie, poi che è difficile non sghignazzare a certi spettacoli!
Lui, Totonno, bestemmiava come un veneto, e nel frattempo rideva di sé stesso e della grottesca situazione, in fondo contento di essere al centro dell’attenzione nostra, ma anche degli astanti, plaudenti e generosi di commenti sarcastici e di brindisi riparatori.
Lo feci accompagnare a casa in tassì, avvolto come un salame in una coperta impermeabile generosamente prestata dall’Oste-pescatore probabilmente non nuovo a queste”prestazioni estreme” nel suo infido spazio di ristoro in riva al mare.
Così si esorcizzava il lavoro e ci si divertiva quando ancora eravamo ragazzi alla conquista del mondo!
Lucio Musto 13 ottobre 2011
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