Andrò controtendenza rispetto a quello che mi par di constatare esser l'andazzo della sezione e quindi di chi la frequenta, ma (a maggior ragione) vorrei dire la mia su un punto.
Sarà anche che in questo periodo della mia vita vorrei proporre a tutta l'umanità una riforma all'insegna della semplificazione, in tutti i campi, perché mi pare ce ne sia estremo bisogno data la generale tendenza a complicare le cose (nonché a complicarsi la vita), ma trovo estremamente artificiosa e, a livello emotivo personale, tediosa, tutta questa tendenza a commentare le poesie.
Innanzitutto trovo che l'artificiosità derivi dal tentativo da parte del critico di elaborare discorsi che vogliono esser presentati al malcapitato lettore come aventi un qual certo spessore. Non dubito che ci sia (stata) in origine l'intenzione di indagare sul significato "vero" della poesia, ma trovo che, forse l'abbandono più o meno inconsapevole di questa via, magari dovuto anche a un più o meno inconscio desiderio di vedere il lauro cingere la propria testa di critico anziché su quella del sommo (v)vate(r) che si va a recensire, forse invece un'eccessiva concentrazione sui più riconditi meandri dei versi, portino con discreta frequenza l'improvvisato teorico della lirica a costruire un'opera per l'appunto artificiosa. Queste le cause, quantomeno presunte, dell'artificiosità; ora la sua sostanza: il critico che si presta a quest'opera rischia, prendendosi troppo sul serio o con poca umiltà o forse per scarsa empatia col poeta o forse per altro ancora, di non riuscire a cogliere il vero significato della poesia, ma ad attribuirgliene un altro totalmente diverso. Non ci sarebbe niente di male, se il commento fosse all'insegna di "quello che io leggo in queste strofe" o "quello che questa poesia mi trasmette". Purtroppo spesso il critico si sostituisce al poeta, interpretandone, senza toni ipotetici ma alquanto risoluti, le intenzioni.
Tralasciando la questione del giudizio qualitativo della poesia, che rientra a mio avviso in una sfera più personale (e più libera) e che non intendo trattare in questa sede (né altrove, almeno al momento), penso che spesso il critico non vada a indagare, a sondare l'anima della poesia, a carpirne i segreti, ma tenda piuttosto a ricondurla ai propri rigidi schemi mentali. La rigidità, che non è necessariamente presente, è ben visibile quando si vede come l'approccio del critico sia il medesimo, strutturalmente e formalmente, pur avendo di fronte testi diversi sotto i punti di vista più disparati. Ognuno ha il proprio stile, si potrebbe blandamente obiettare, ed evidentemente il critico ha una forma mentis tale da inquadrare tutti gli oggetti della propria critica in quel (pre)determinato modo. Potrebbe anche esser così - ma sia chiaro che questo è un limite del critico, e non un pregio! -, ma la cosa che personalmente mi fa prender le distanze da certe attitudini con queste caratteristiche, è non solo l'abitudinarietà che le rende morte già al parto (degli aborti, insomma), ma anche, quando c'è, lo schematismo scolastico che da esse traspare.
Questo è il mio pensiero. Lungi da ritenermi Borges, per quanto io sia critico a modo mio, ma non nel senso del mio povero critico.
Sarà anche che in questo periodo della mia vita vorrei proporre a tutta l'umanità una riforma all'insegna della semplificazione, in tutti i campi, perché mi pare ce ne sia estremo bisogno data la generale tendenza a complicare le cose (nonché a complicarsi la vita), ma trovo estremamente artificiosa e, a livello emotivo personale, tediosa, tutta questa tendenza a commentare le poesie.
Innanzitutto trovo che l'artificiosità derivi dal tentativo da parte del critico di elaborare discorsi che vogliono esser presentati al malcapitato lettore come aventi un qual certo spessore. Non dubito che ci sia (stata) in origine l'intenzione di indagare sul significato "vero" della poesia, ma trovo che, forse l'abbandono più o meno inconsapevole di questa via, magari dovuto anche a un più o meno inconscio desiderio di vedere il lauro cingere la propria testa di critico anziché su quella del sommo (v)vate(r) che si va a recensire, forse invece un'eccessiva concentrazione sui più riconditi meandri dei versi, portino con discreta frequenza l'improvvisato teorico della lirica a costruire un'opera per l'appunto artificiosa. Queste le cause, quantomeno presunte, dell'artificiosità; ora la sua sostanza: il critico che si presta a quest'opera rischia, prendendosi troppo sul serio o con poca umiltà o forse per scarsa empatia col poeta o forse per altro ancora, di non riuscire a cogliere il vero significato della poesia, ma ad attribuirgliene un altro totalmente diverso. Non ci sarebbe niente di male, se il commento fosse all'insegna di "quello che io leggo in queste strofe" o "quello che questa poesia mi trasmette". Purtroppo spesso il critico si sostituisce al poeta, interpretandone, senza toni ipotetici ma alquanto risoluti, le intenzioni.
Tralasciando la questione del giudizio qualitativo della poesia, che rientra a mio avviso in una sfera più personale (e più libera) e che non intendo trattare in questa sede (né altrove, almeno al momento), penso che spesso il critico non vada a indagare, a sondare l'anima della poesia, a carpirne i segreti, ma tenda piuttosto a ricondurla ai propri rigidi schemi mentali. La rigidità, che non è necessariamente presente, è ben visibile quando si vede come l'approccio del critico sia il medesimo, strutturalmente e formalmente, pur avendo di fronte testi diversi sotto i punti di vista più disparati. Ognuno ha il proprio stile, si potrebbe blandamente obiettare, ed evidentemente il critico ha una forma mentis tale da inquadrare tutti gli oggetti della propria critica in quel (pre)determinato modo. Potrebbe anche esser così - ma sia chiaro che questo è un limite del critico, e non un pregio! -, ma la cosa che personalmente mi fa prender le distanze da certe attitudini con queste caratteristiche, è non solo l'abitudinarietà che le rende morte già al parto (degli aborti, insomma), ma anche, quando c'è, lo schematismo scolastico che da esse traspare.
Questo è il mio pensiero. Lungi da ritenermi Borges, per quanto io sia critico a modo mio, ma non nel senso del mio povero critico.