Seguo lo spunto che altre discussioni mi hanno suscitato, ma più per esprimere perplessità (e smorzare qualche inquietudine), inserendo questo documento per sviluppare ulteriori riflessioni:
Cenni storici e testimonianze archeologiche
Sul monte più alto del Latium Vetus, ancor prima della nascita di Roma, i Latini ritenevano che vivesse la loro maggiore divinità, Giove o Iuppiter Latiaris. E’ proprio in questo posto, sul Mons Albanus, poi Monte Cavo (dall’antica località Cabum, sita dove oggi sono i Campi d’Annibale, distrutta da Roma nel 400 a.C.), che essi consacrarono un tempio al dio, dopo aver sterrato la vetta (il monte, infatti, ha la forma di un cono tronco). L’area occupata dall’edificio era di circa 280 mq. ed era circondata da robuste mura, realizzate mediante l’impiego di massi di pietra ben squadrata e di diversa grandezza. Prima del 1910-1911 si riteneva che l’edificio non avesse tetto ma, il ritrovamento di diciotto tamburi di colonne, di terracotte e di tegole, nella località Guardianone (immediatamente sotto monte Cavo), hanno permesso di capire che il tempio non solo era circondato da colonne, ma aveva una copertura e rivestimenti in terracotta. Probabilmente il modello seguito era quello etrusco e recava esternamente, a sinistra, l’ara sacrificale.
Secondo la tradizione, il tempio fu voluto da Tarquinio il Superbo per unire, con un unico culto e presso la medesima località, tutte le tribù del Lazio.
Ogni anno, gli ufficiali e i personaggi più importanti delle tribù laziali, Eque, Volsche ed Erniche, si riunivano per stabilire regole comuni, tenere i mercati, fare dei sacrifici per rendere grazie a Giove, per partecipare a giochi, organizzati sulla piana dei Campi d’Annibale. In questo modo, il tempio non aveva soltanto un valore religioso, ma anche politico e sociale.
Durante le “Feriae Latinae”, Roma rimaneva quasi del tutto deserta. Il momento più importante delle cerimonie era il sacrificio di tori bianchi dalle corna dipinte di oro, adornati con alloro e fiori.
Le carni venivano distribuite a tutti, tra danze, gare sportive e convegni.
Il monte Albano era sacro anche per il “piccolo trionfo” o “ovazione”: ai comandanti vittoriosi, al ritorno da imprese militari, Roma, con un decreto del Senato, organizzava loro una festa in Campidoglio. Se, invece, i comandanti non avevano partecipato ad imprese militari o quando non era loro permesso di salire al Campidoglio, ricevevano le onorificenze al Tempio di Giove Laziale, con il capo coronato di mirto. L’edificio veniva raggiunto per mezzo della Via Sacra e, alla fine del percorso, veniva sacrificato una pecora (pecora = ovino = ovazione).
A causa dell’avvicinarsi minaccioso di Annibale, le mura del tempio furono fortificate così come la zona circostante, strategicamente importante. Successivamente il tempio subì varie vicissitudini:
- Nel medio evo decadde e, al suo posto venne costruito un eremo dedicato a San Pietro, il quale ospitò religiosi polacchi, missionari fiamminghi e spagnoli.
- Il tempio, successivamente, andò in rovina per incuria degli uomini e per le intemperie Nel 1727 fu costruito un monastero e nel 1758 San Paolo della Croce portò i frati passionisti. Per la sua realizzazione sembra siano stati utilizzati materiali prelevati dal vecchio tempio, così come testimoniano alcuni operai roccheggiani agli inizi del XVIII sec.
- Il monastero venne abbandonato nel 1889 e, dopo alcuni anni, trasformato in una trattoria.
Diverse persone si sono alternate alla gestione del ristorante ma fu grazie a Pacifico Grimaldi che venne realizzato un vero e proprio complesso alberghiero ove vennero ospitati personaggi illustri quali Pirandello, De Gasperi, De Sica, Fabrizi, i principi di Winsor ecc.
Attualmente, dell’area sacra dedicata a Giove, rimangono solo pochi blocchi di tufo del recinto, portati alla luce durante gli scavi del 1929, che però non sono state sufficienti per affermare la presenza del tempio, ma soltanto quella di strutture idonee alla realizzazione di un complesso sacrale.
Come abbiamo precedentemente affermato, l’accesso al tempio di “Iuppiter Latiaris” era permesso solo per mezzo della “Via Sacra”, erroneamente chiamata “Via Triumphalis”. Larga 2,55 m. è lastricata con basoli (sassi cuneiformi nella parte inferiore, infilzata nel terreno) di selce e fiancheggiata dalle crepidini, blocchetti di peperino e, in alcuni punti, da resti di un muro di contenimento in opera quadrata.
Estesa per una lunghezza di circa 3 Km., si staccava dalla Via Appia, all’altezza di Ariccia, attraversava risalendo il cratere del lago di Albano e risaliva, infine, a tornanti su Monte Cavo.
La strada, inoltre, presenta, ancor oggi, alcuni particolari, come i cosiddetti falli apotropaici, scolpiti a rilievo su alcune basole, avente il potere di allontanare il male ed il “malocchio”; delle incanalature artificiali per le acque torrenziali e le lettere N e V diversamente interpretate( 1. Novus e Vetus, per indicare la parte vecchia della strada e quella che, in quel tempo era stata sistemata;
2. Sono le iniziali dei proprietari delle due ditte che realizzarono l’opera).
fonte:http://web.romascuola.net/noisulterritorio/RoccaDiPapa/Montanari/MonteCavo.htm#Cenni%20storici%20e%20testimonianze%20archeologiche
Questo luogo fu dunque simbolo per una confederazione di genti accomunate dalla stessa esigenza di condividere un territorio per trarne sia risorse per sostentarsi, sia per svilupparsi in una comunità più coesa e prospera, quale furono poi i Romani che gli succedettero.
Il tipo di sacralità che si estrinseca in una forma diremmo spettacolare, per canalizzare un tipo di spiritualità forse spesso indicibile, ma sottesa, come intimamente percepita nella propria coscienza, è una delle forme di adattamento più complesse che la natura abbia saputo escogitare.
E' evidente come ogni aspetto della comunicazione sia funzionale alla soddisfazione di equilibrio che le relazioni impongono: è in noi non la libertà di espressione, visto che ci viene estorta da un vincolo che ci richiede di essere untori fra gli attriti, ma ci è data piuttosto la possibilità di essere anello di congiunzione tra una causa che presagisce le potenziali concatenazioni e, tramite intervento fattivo, connaturare l'evento facendoci interpreti neutrali e sistematici. L'evento stesso, per scaturire, si depotenzia gradualmente di tutte le sue molteplici probabilità e, per converso, si approssima esponenzialmente verso l'atto risolutivo sino a sintetizzarsi tra due esigenze prima contrapposte, ma che subito dopo s'intersecano (*1). E questo accadimento è un impulso continuativo che si sovrappone alla miriade di altri continuativi impulsi in un rimescolio (di sostanza) senza sosta.
Ora tenterò un azzardo... anzi domani, perché la connessione oggi è ballerina.
Cenni storici e testimonianze archeologiche
Sul monte più alto del Latium Vetus, ancor prima della nascita di Roma, i Latini ritenevano che vivesse la loro maggiore divinità, Giove o Iuppiter Latiaris. E’ proprio in questo posto, sul Mons Albanus, poi Monte Cavo (dall’antica località Cabum, sita dove oggi sono i Campi d’Annibale, distrutta da Roma nel 400 a.C.), che essi consacrarono un tempio al dio, dopo aver sterrato la vetta (il monte, infatti, ha la forma di un cono tronco). L’area occupata dall’edificio era di circa 280 mq. ed era circondata da robuste mura, realizzate mediante l’impiego di massi di pietra ben squadrata e di diversa grandezza. Prima del 1910-1911 si riteneva che l’edificio non avesse tetto ma, il ritrovamento di diciotto tamburi di colonne, di terracotte e di tegole, nella località Guardianone (immediatamente sotto monte Cavo), hanno permesso di capire che il tempio non solo era circondato da colonne, ma aveva una copertura e rivestimenti in terracotta. Probabilmente il modello seguito era quello etrusco e recava esternamente, a sinistra, l’ara sacrificale.
Secondo la tradizione, il tempio fu voluto da Tarquinio il Superbo per unire, con un unico culto e presso la medesima località, tutte le tribù del Lazio.
Ogni anno, gli ufficiali e i personaggi più importanti delle tribù laziali, Eque, Volsche ed Erniche, si riunivano per stabilire regole comuni, tenere i mercati, fare dei sacrifici per rendere grazie a Giove, per partecipare a giochi, organizzati sulla piana dei Campi d’Annibale. In questo modo, il tempio non aveva soltanto un valore religioso, ma anche politico e sociale.
Durante le “Feriae Latinae”, Roma rimaneva quasi del tutto deserta. Il momento più importante delle cerimonie era il sacrificio di tori bianchi dalle corna dipinte di oro, adornati con alloro e fiori.
Le carni venivano distribuite a tutti, tra danze, gare sportive e convegni.
Il monte Albano era sacro anche per il “piccolo trionfo” o “ovazione”: ai comandanti vittoriosi, al ritorno da imprese militari, Roma, con un decreto del Senato, organizzava loro una festa in Campidoglio. Se, invece, i comandanti non avevano partecipato ad imprese militari o quando non era loro permesso di salire al Campidoglio, ricevevano le onorificenze al Tempio di Giove Laziale, con il capo coronato di mirto. L’edificio veniva raggiunto per mezzo della Via Sacra e, alla fine del percorso, veniva sacrificato una pecora (pecora = ovino = ovazione).
A causa dell’avvicinarsi minaccioso di Annibale, le mura del tempio furono fortificate così come la zona circostante, strategicamente importante. Successivamente il tempio subì varie vicissitudini:
- Nel medio evo decadde e, al suo posto venne costruito un eremo dedicato a San Pietro, il quale ospitò religiosi polacchi, missionari fiamminghi e spagnoli.
- Il tempio, successivamente, andò in rovina per incuria degli uomini e per le intemperie Nel 1727 fu costruito un monastero e nel 1758 San Paolo della Croce portò i frati passionisti. Per la sua realizzazione sembra siano stati utilizzati materiali prelevati dal vecchio tempio, così come testimoniano alcuni operai roccheggiani agli inizi del XVIII sec.
- Il monastero venne abbandonato nel 1889 e, dopo alcuni anni, trasformato in una trattoria.
Diverse persone si sono alternate alla gestione del ristorante ma fu grazie a Pacifico Grimaldi che venne realizzato un vero e proprio complesso alberghiero ove vennero ospitati personaggi illustri quali Pirandello, De Gasperi, De Sica, Fabrizi, i principi di Winsor ecc.
Attualmente, dell’area sacra dedicata a Giove, rimangono solo pochi blocchi di tufo del recinto, portati alla luce durante gli scavi del 1929, che però non sono state sufficienti per affermare la presenza del tempio, ma soltanto quella di strutture idonee alla realizzazione di un complesso sacrale.
Come abbiamo precedentemente affermato, l’accesso al tempio di “Iuppiter Latiaris” era permesso solo per mezzo della “Via Sacra”, erroneamente chiamata “Via Triumphalis”. Larga 2,55 m. è lastricata con basoli (sassi cuneiformi nella parte inferiore, infilzata nel terreno) di selce e fiancheggiata dalle crepidini, blocchetti di peperino e, in alcuni punti, da resti di un muro di contenimento in opera quadrata.
Estesa per una lunghezza di circa 3 Km., si staccava dalla Via Appia, all’altezza di Ariccia, attraversava risalendo il cratere del lago di Albano e risaliva, infine, a tornanti su Monte Cavo.
La strada, inoltre, presenta, ancor oggi, alcuni particolari, come i cosiddetti falli apotropaici, scolpiti a rilievo su alcune basole, avente il potere di allontanare il male ed il “malocchio”; delle incanalature artificiali per le acque torrenziali e le lettere N e V diversamente interpretate( 1. Novus e Vetus, per indicare la parte vecchia della strada e quella che, in quel tempo era stata sistemata;
2. Sono le iniziali dei proprietari delle due ditte che realizzarono l’opera).
fonte:http://web.romascuola.net/noisulterritorio/RoccaDiPapa/Montanari/MonteCavo.htm#Cenni%20storici%20e%20testimonianze%20archeologiche
Questo luogo fu dunque simbolo per una confederazione di genti accomunate dalla stessa esigenza di condividere un territorio per trarne sia risorse per sostentarsi, sia per svilupparsi in una comunità più coesa e prospera, quale furono poi i Romani che gli succedettero.
Il tipo di sacralità che si estrinseca in una forma diremmo spettacolare, per canalizzare un tipo di spiritualità forse spesso indicibile, ma sottesa, come intimamente percepita nella propria coscienza, è una delle forme di adattamento più complesse che la natura abbia saputo escogitare.
E' evidente come ogni aspetto della comunicazione sia funzionale alla soddisfazione di equilibrio che le relazioni impongono: è in noi non la libertà di espressione, visto che ci viene estorta da un vincolo che ci richiede di essere untori fra gli attriti, ma ci è data piuttosto la possibilità di essere anello di congiunzione tra una causa che presagisce le potenziali concatenazioni e, tramite intervento fattivo, connaturare l'evento facendoci interpreti neutrali e sistematici. L'evento stesso, per scaturire, si depotenzia gradualmente di tutte le sue molteplici probabilità e, per converso, si approssima esponenzialmente verso l'atto risolutivo sino a sintetizzarsi tra due esigenze prima contrapposte, ma che subito dopo s'intersecano (*1). E questo accadimento è un impulso continuativo che si sovrappone alla miriade di altri continuativi impulsi in un rimescolio (di sostanza) senza sosta.
Ora tenterò un azzardo... anzi domani, perché la connessione oggi è ballerina.