La poesia è un modo veloce e sintetico per descrivere le emozioni, i sentimenti, le passioni umane.
Anche il vino bevuto in eccesso è un modo veloce per indurre l’individuo ad “esternare” emozioni, sentimenti, a dire cose che non dovrebbe dire, perciò il detto latino: “in vino veritas”, che significa “nel vino la verità”. Quando una persona è “alticcia” ha i freni inibitori rilassati e tende facilmente a rivelare fatti e pensieri veritieri che da sobrio non direbbe.
L’antico noto poeta epicureo Orazio (Quinto Orazio Flacco, 65 a. C – 8 a. C.)scrisse: “che cosa non rivela l'ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste”. Ed ancora: “Commissumque teges et vino tortus et ira” (= mantieni il segreto anche se il vino o l'ira ti spingono a parlare).”Epistolae", 1, 18, 38.
Giacomo Ceruti, detto “il Pitocchetto”: “Gli spillatori di vino”, collezione privata
Il giovane "spillatore", piegato sulle ginocchia davanti alla botte, sembra essersi voltato di scatto avvertendo la presenza di qualcuno.
La coltivazione della vite per la produzione di uva da tavola e per la vinificazione ha avuto inizio nel neolitico.
Scritture sumeriche risalenti alla prima metà del III millennio a.C. attestano che la vite veniva coltivata per produrre vino.
Nell’iconografia dell’antico Egitto il vino è bevanda del faraone defunto. Infatti i testi delle Piramidi affermano che i re defunti si nutrono con "fichi e vino che sono nella vigna del dio".
Per gli antichi Greci il vino era un dono degli dei.
Omero ha chiosato i piaceri enoici degli eroi argivi.
Nella Grecia classica la centralità del simposio, con i suoi riti collegati alla mescita e al consumo del vino, è evidenziata dal filosofo Platone nel suo libro titolato “Simposio”. La “bevuta collettiva” suggella le amicizie, favorisce il dialogo.
Il mito greco narra che fu il dio Dioniso (= Bacco) a donare all’umanità la vite e il vino, che induce al canto, accompagna la follia, e nel sacrificio rituale diventa strumento di mediazione tra l’individuo e le divinità.
Invece nel libro della Genesi si dice che fu Noé dopo il diluvio universale ad impiantare la prima vigna alle falde del monte Ararat, in Armenia.
Il mito della piantagione della vigna, della produzione del vino e dell’ebbrezza di Noé dopo il diluvio, dà al vino una posizione centrale nella storia della civiltà cristiana.
Per la tradizione esegetica medievale la seconda età del mondo inizia con la fine del “diluvio universale”. Noé uscito dall’arca, pianta la vite, produce il vino e si inebria.
Non dunque, come affermavano i pagani che fu Bacco l’auctor vini, ma Noé, l’uomo giusto che ha salvato con l’arca (costruita secondo le prescrizioni di Javhé) tutte le specie viventi e, con la sua famiglia, l’umanità.
Nel IV secolo il teologo Ambrogio, vescovo di Milano, in un testo si chiede perché da “homo iustus” Noé ha piantato la vite e non il frumento o l’orzo pur necessari alla vita umana. Alla sua domanda si risponde dicendo che Noé proprio perché è giusto si è preoccupato delle cose voluttuarie, sapendo che Dio provvede alle necessarie.
Dal mito del diluvio universale scaturì il libro titolato “Encomio del vino”, scritto nell’XI secolo dal filosofo e storico bizantino Michele Psello: questo cognome nella lingua greca significa balbuziente, forse un soprannome derivante da un suo difetto di pronuncia. Questo autore sostiene che Noé è come Adamo, al quale disputa il primato per il bene che ha fatto all’umanità.
Nell’encomio del vino, Psello segue la tradizione encomiastica greca ed alterna testimonianze di autori pagani, ebraici e cristiani, tutti concordi nel celebrare le lodi al vino e la sua origine divina.
Nella religione cristiana il vino assume la centralità durante l’ultima cena di Gesù con gli apostoli. Il vino diviene simbolo del sangue di Cristo, della sua morte sulla croce.
L’enoico piacere si lega spesso al piacere sessuale, perciò la locandiera Mirandolina afferma: “Faccio un brindisi, e me ne vado subito. Un brindisi che mi ha insegnato mia nonna. Viva Bacco, e viva Amore: L'uno e l'altro ci consola; Uno passa per la gola, L'altro va dagli occhi al cuore. Bevo il vin, cogli occhi poi... Faccio quel che fate voi”.
“La locandiera” è il titolo della commedia in tre atti scritta da Carlo Goldoni nel 1753. La trama è incentrata sulle vicende di Mirandolina, un’attraente ed astuta giovane donna che possiede una locanda che gestisce con l’aiuto del cameriere Fabrizio.
In epoca rinascimentale il religioso e letterato fra’ Sabba da Castiglione (1480 – 1554), appartenente all’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, nei suoi “Ricordi” attribuì a un non meglio identificato “gran filosofo tedesco” di Basilea, questa proposizione: “Qui bene bibit et bene comedit, bene dormit, qui bene dormit, non peccat, qui non peccat vadit in paradisum. Ergo si volumus ire in paradisum, bibamus et comedamus egregie” (= “Chi beve e mangia bene, dorme bene, chi dorme bene, non pecca, chi non pecca va in paradiso. Perciò se vogliamo andare in paradiso, beviamo e mangiamo in modo eccellente”.
Fra’ Sabba aggiunge che quel filosofo tedesco “erat maximus doctor potavinus”: questa frase è uno scherzoso paralogismo, perché “potavinus” allude ad un “gran bevitore”; forse Sabba voleva dire "gran dottore laureato a Padova", in tal caso, però, avrebbe dovuto scrivere “patavinus” e non “potavinus”.
Anche il vino bevuto in eccesso è un modo veloce per indurre l’individuo ad “esternare” emozioni, sentimenti, a dire cose che non dovrebbe dire, perciò il detto latino: “in vino veritas”, che significa “nel vino la verità”. Quando una persona è “alticcia” ha i freni inibitori rilassati e tende facilmente a rivelare fatti e pensieri veritieri che da sobrio non direbbe.
L’antico noto poeta epicureo Orazio (Quinto Orazio Flacco, 65 a. C – 8 a. C.)scrisse: “che cosa non rivela l'ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste”. Ed ancora: “Commissumque teges et vino tortus et ira” (= mantieni il segreto anche se il vino o l'ira ti spingono a parlare).”Epistolae", 1, 18, 38.
Giacomo Ceruti, detto “il Pitocchetto”: “Gli spillatori di vino”, collezione privata
Il giovane "spillatore", piegato sulle ginocchia davanti alla botte, sembra essersi voltato di scatto avvertendo la presenza di qualcuno.
La coltivazione della vite per la produzione di uva da tavola e per la vinificazione ha avuto inizio nel neolitico.
Scritture sumeriche risalenti alla prima metà del III millennio a.C. attestano che la vite veniva coltivata per produrre vino.
Nell’iconografia dell’antico Egitto il vino è bevanda del faraone defunto. Infatti i testi delle Piramidi affermano che i re defunti si nutrono con "fichi e vino che sono nella vigna del dio".
Per gli antichi Greci il vino era un dono degli dei.
Omero ha chiosato i piaceri enoici degli eroi argivi.
Nella Grecia classica la centralità del simposio, con i suoi riti collegati alla mescita e al consumo del vino, è evidenziata dal filosofo Platone nel suo libro titolato “Simposio”. La “bevuta collettiva” suggella le amicizie, favorisce il dialogo.
Il mito greco narra che fu il dio Dioniso (= Bacco) a donare all’umanità la vite e il vino, che induce al canto, accompagna la follia, e nel sacrificio rituale diventa strumento di mediazione tra l’individuo e le divinità.
Invece nel libro della Genesi si dice che fu Noé dopo il diluvio universale ad impiantare la prima vigna alle falde del monte Ararat, in Armenia.
Il mito della piantagione della vigna, della produzione del vino e dell’ebbrezza di Noé dopo il diluvio, dà al vino una posizione centrale nella storia della civiltà cristiana.
Per la tradizione esegetica medievale la seconda età del mondo inizia con la fine del “diluvio universale”. Noé uscito dall’arca, pianta la vite, produce il vino e si inebria.
Non dunque, come affermavano i pagani che fu Bacco l’auctor vini, ma Noé, l’uomo giusto che ha salvato con l’arca (costruita secondo le prescrizioni di Javhé) tutte le specie viventi e, con la sua famiglia, l’umanità.
Nel IV secolo il teologo Ambrogio, vescovo di Milano, in un testo si chiede perché da “homo iustus” Noé ha piantato la vite e non il frumento o l’orzo pur necessari alla vita umana. Alla sua domanda si risponde dicendo che Noé proprio perché è giusto si è preoccupato delle cose voluttuarie, sapendo che Dio provvede alle necessarie.
Dal mito del diluvio universale scaturì il libro titolato “Encomio del vino”, scritto nell’XI secolo dal filosofo e storico bizantino Michele Psello: questo cognome nella lingua greca significa balbuziente, forse un soprannome derivante da un suo difetto di pronuncia. Questo autore sostiene che Noé è come Adamo, al quale disputa il primato per il bene che ha fatto all’umanità.
Nell’encomio del vino, Psello segue la tradizione encomiastica greca ed alterna testimonianze di autori pagani, ebraici e cristiani, tutti concordi nel celebrare le lodi al vino e la sua origine divina.
Nella religione cristiana il vino assume la centralità durante l’ultima cena di Gesù con gli apostoli. Il vino diviene simbolo del sangue di Cristo, della sua morte sulla croce.
L’enoico piacere si lega spesso al piacere sessuale, perciò la locandiera Mirandolina afferma: “Faccio un brindisi, e me ne vado subito. Un brindisi che mi ha insegnato mia nonna. Viva Bacco, e viva Amore: L'uno e l'altro ci consola; Uno passa per la gola, L'altro va dagli occhi al cuore. Bevo il vin, cogli occhi poi... Faccio quel che fate voi”.
“La locandiera” è il titolo della commedia in tre atti scritta da Carlo Goldoni nel 1753. La trama è incentrata sulle vicende di Mirandolina, un’attraente ed astuta giovane donna che possiede una locanda che gestisce con l’aiuto del cameriere Fabrizio.
In epoca rinascimentale il religioso e letterato fra’ Sabba da Castiglione (1480 – 1554), appartenente all’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, nei suoi “Ricordi” attribuì a un non meglio identificato “gran filosofo tedesco” di Basilea, questa proposizione: “Qui bene bibit et bene comedit, bene dormit, qui bene dormit, non peccat, qui non peccat vadit in paradisum. Ergo si volumus ire in paradisum, bibamus et comedamus egregie” (= “Chi beve e mangia bene, dorme bene, chi dorme bene, non pecca, chi non pecca va in paradiso. Perciò se vogliamo andare in paradiso, beviamo e mangiamo in modo eccellente”.
Fra’ Sabba aggiunge che quel filosofo tedesco “erat maximus doctor potavinus”: questa frase è uno scherzoso paralogismo, perché “potavinus” allude ad un “gran bevitore”; forse Sabba voleva dire "gran dottore laureato a Padova", in tal caso, però, avrebbe dovuto scrivere “patavinus” e non “potavinus”.
Ultima modifica di altamarea il Mar 23 Ott 2018 - 21:46 - modificato 4 volte.