CALANDRINA
La signorina aveva sempre freddo. Usciva di casa di soppiatto, con quella sua faccia bianca e livida dai contorni sfuggenti... pareva incipriata con polvere d’elitropia.
Così la soprannominai Calandrina.
Era arrivata a novembre, Calandrina, insieme al brutto tempo, alla pioggia, alla noia. Avevo cominciato ad interessarmene forse proprio per il suo aspetto vago, indefinito, opaco come la nebbia. Cosa faceva in quell’appartamento quando vi si chiudeva dentro? Cosa faceva quando ne usciva?
Tutte le notti la vedevo sola e assorta, restava immobile, per ore, dietro ai vetri della finestra, l’unica che dava sul cortile, accanto a quella dello studio Peletti. Erano odiosi i Peletti. Più la moglie o più il marito? Forse lui, col suo cane lardoso che abbaiava per niente e non sentiva mai ragione di starsene un po’ zitto.
Calandrina era diversa da tutte le creature che avevo visto prima di lei. La notte, dicevo, se ne stava alla finestra per un tempo interminabile, alle sue spalle il buio più completo. Ne intuivo la presenza perché quel suo volto impossibile sembrava illuminato dai suoi stessi occhi bianchi. Mi appariva come un corpo stranamente sospeso nella sostanza di quel riquadro scuro, un corpo sfuggente, piatto, che niente sembrava collegare al mondo in cui mi trovavo io. Ad un certo punto piegava la testa, sembrava volesse sporgersi un poco in avanti, poi portava le mani alla bocca come per pregare. Era il solito gesto che le vedevo fare da settimane, quello con cui scaldiamo dita e naso infreddoliti soffiando calore tra le mani giunte. A volte avevo l’impressione che mi guardasse. Restava così per altri tre o quattro minuti ad annusare la notte, poi si ritirava con calma nel silenzio della sua stanza.
Durante il giorno non usciva quasi mai, la vedevo piuttosto dopo il tramonto. Ma stava fuori poco. Ogni tanto qualcuno veniva a farle visita. Erano persone sempre diverse, di tutte le età, e nessuno arrivava mai in compagnia bambini. Stavano dentro un’oretta circa, talvolta anche di più. Molti di loro, quando uscivano, avevano il volto contratto, qualcuno si copriva gli occhi lucidi e arrossati come se volesse mascherare il fatto di aver appena pianto. Si allontanavano lenti e ingobbiti, sembravano frenati da forze sotterranee o da pesi opprimenti, difficili da trascinare.
Solo una donna vidi sorridere mentre si chiudeva alle spalle il portone di Calandrina. Aveva un’espressione sognante e imbambolata, era giovane, biondina, e continuava a baciare una medaglietta che portava appesa al collo.
***
“Chi c’è?”
“Sono io.”
“Io chi?”
“...”
“Come ti chiami?”
“Alberto”.
“Alberto, perché sei qui?”
“Non lo so.... Vorrei parlarti.”
“Posso sedermi?” Calandrina m’indicò una poltrona di vimini che si trovava in mezzo alla stanza, proprio accanto al suo letto. Intorno un’atmosfera cupa e verdognola rendeva ogni cosa faticosamente percettibile. Era come se mi fossi immerso ad occhi aperti in una piscina torbida di alghe ed acqua salata. Indovinavo solo il profilo di lei, in piedi, illuminata dalla luce traballante di una candela gialla accesa su un tavolinetto. Solo lei respirava in quella stanza. Molto sommessamente, sì, respirava quell’aria spessa di incubi: li vedevo mentre volteggiavano filamentosi attorno alla sua figura esile e chiara. Sembrava volessero strapparle i capelli con le loro lunghe zanne.
Calandrina restava immobile con il braccio teso verso la poltrona. Continuava a fissarmi muta, le sue labbra erano ridotte ad un puntino nero e sfocato.
“Certo. Siedi pure.”
“Quanti anni hai?”
“Tredici e mezzo.” Mi piaceva essere preciso.
“Non sai perché sei qui?”
“Voglio parlare.”
“Va bene. Parliamo.”
Era calma, ma un velo stridente e sottile inframezzava fastidiosamente il suono delle sue parole, indicandomi che in un angolo del suo essere c’era allarme.
“Alberto, lo sai che non dovresti essere qui vero?”
“N...no, non ci vedo niente di strano. Ti osservo da mesi ormai. Sei strana.”
Mi fece un sorriso benevolo.
“Eh sì... questo lo so anch’io... so bene di essere strana. E non solo per quelli come te.”
Che dialogo... Mi sentivo agitato come un pesciolino in olio che frigge.
“Il tuo posto è altrove. Io posso aiutarti, ma prima devi seguire le mie indicazioni.”
“Spiegami allora.” M’inventai un sorriso, il migliore che mi venne in mente.
“Cosa facevi prima di incontrare me?”
Oh, noo... Quella domanda mi ferì il cervello come una lama. Mi sentii dolorante, da capo a piedi. Ebbi voglia di sdraiarmi a terra, rotolare, allungarmi, gridare, graffiare, urlare....
Lei restava seduta e ferma, mi guardava, si scaldava le mani soffiandoci sopra e stringendosi nel pesante maglione color... non so di che colore fosse. Ad un tratto si alzò e mi venne vicino. L’aria intorno aveva assunto una consistenza lanosa e soffocante.
“Come è successo?”
“Sono stato rapito.”
“Cosa ricordi?”
“Mi ha preso. Stavo tornando a casa dopo la lezione di pianoforte. Ero stato dal maestro Diego. Tu lo conosci?”
“Sì, lo vedo spesso.” Accennò un sorriso dolcemente triste e guardò in alto come se aspettasse di vedere la figura del mio maestro comparire sul soffitto. “Abita a due isolati da qui. Chi ti ha rapito?”
“Un uomo. Non so chi fosse. Si è fermato per chiedermi informazioni su.... non so, non ricordo più.”
Improvvisamente cominciai a piangere. Senza rumore nè lacrime da nessuna parte. Più mi sforzavo di ricordare più il buio soffocava e stringeva la mia mente impedendomelo.
Poi un dolore al collo, profondo, opprimente... mi sentii sbattuto contro la parete da una forza invisibile. Mi accasciai a terra come un palloncino sgonfio, premendomi la pancia dove mi sentivo colpito come da una raffica di calci potentissimi e incessanti.
“Aiuto....”
“Non preoccuparti. Sono i tuoi ultimi ricordi. Abbandonali. Lascia che se ne vadano. Tu sei oltre, adesso.”
“Come?? Sto malissimo.... aiutami...”
“Ti sto già aiutando. Vieni verso di me... perché mi chiami Calandrina?” Pronunciò quel nome in modo dolce e piano, come una mamma che racconta al suo bambino fiabe inventate sul momento.
Come faceva a sapere che io la chiamavo in quel modo?
“Perché sei così sottile e bianca da sembrare quasi invisibile. Come un’ombra. Come se ti fossi nascosta grazie ai poteri di una pietra magica. E’ una storiella che ci ha letto la professoressa Pavini a scuola.”
“Alberto, vieni verso di me. Lo vedi questo?”
Sì, vedevo... era una sfera gialla e luminosa, con una nocciolina più chiara al suo interno che pulsava debolmente al centro del suo petto. Sentii all’improvviso che aveva un potere attrattivo fortissimo.
Mi mossi verso di lei.
“Non fermarti e non avere paura di ciò che potrebbe accadere toccandola...”
Procedevo. Tutta l’angoscia, il dolore, la paura che mi aveva pervaso in quegli ultimi momenti stava prendendo una direzione nuova, si allontanava da me. Quella nocciolina inquieta mi stava dando un impercettibile saluto, guidandomi verso un puntino remoto, una nota senza colore, assolutamente amichevole.
...
“Ciao Alberto... la tua mamma e il tuo papà ti vogliono bene. E anche io.”
Ilvia appoggiò un mazzetto di margherite accanto all’enorme vaso di pietra pieno di garofani bianchi.
“Lo hanno preso ieri. Ne ha uccisi altri tre. Tu ed io sappiamo che non è vero. Sono otto. Gli altri cinque li ha gettati nel recinto. Uno dopo l’altro, nell’arco di due anni. Sarà difficile farmi credere dagli investigatori, ma se riuscirò a convincerli ad ispezionare a fondo l’allevamento di Colleluco troveranno le prove necessarie. Tra poco dovrò andare.”
Indietreggiò di pochi passi, sbirciando l’orologino che aveva al polso. Poi sorrise, puntando lo sguardo altrove. C’era un’atmosfera rarefatta intorno, di una luminosità sfumata e a tratti accecante, come il dolore trattenuto a stento. C’erano uccelli muti che frusciavano tra i rami di pino bagnati, c’erano i passi di una vedova, il risolino lontano di una bimba, il gelo delle ombre in attesa dietro alle siepi di pitosporo.
“Alle tre ho un appuntamento con il tuo maestro di pianoforte: ora viene tutti i giorni a farsi leggere le carte per sapere se presto troverà un’altra fidanzata.” Scosse leggermente la testa, pensando a lui non poté impedirsi di arrossire. Era bello, un po’ strambo, camminava con un passetto bizzarro ed aveva una voce buffa, inconfondibile. “Hai una voce.... da prete!” Gli aveva detto Ilvia sorridendo mentre lui aveva tentato malamente di attaccarle bottone davanti al bar vicino casa. Lui ne era rimasto un po’ offeso all’inizio ma aveva continuato ad esibirsi in arguzie innocenti e maldestre, tanto che Ilvia aveva finito con l’accettare l’invito per un caffé.
“Io so che non crede per niente a queste cose. A volte mi fissa con aria di sufficienza come se avesse a che fare con una matta da assecondare. Viene soltanto perché ora da me si sente di nuovo bene. Non sa che la prossima sarò io. Non glielo dirò. Lo scoprirà da solo, stasera, prima di tornare a casa, durante uno dei suoi giri in macchina in cerca di un piacevole nulla. Poi domani tornerà da me, portandomi in dono “Semplicità insormontabili”, uno dei suoi libri preferiti. Sopra ci troverò una dedica scherzosa con la quale vorrà farmi capire di essere mio, senza condizioni.” Gli occhi di Ilvia si muovevano intorno come per seguire quella scena girata in anteprima, solo per lei.
“Sarò la prossima ed ultima.” Il sorriso le si spense miseramente sulle labbra mentre si piegavano all’ingiù.
“Come vorrei sottrarmi all’inevitabile, nascondermi dietro una pietra magica che mi renda invisibile ai dispiaceri. Il lato peggiore della mia condizione è proprio nell’esser destinata a soffrire in largo anticipo le sventure che mi toccheranno. Tra undici mesi lo perderò.” Si coprì gli occhi con una mano, come per schermare qualcosa di troppo brutto da mostrare al mondo, qualcosa che solo lei poteva già vedere.
“Alberto, vorrei che mi facessi un regalo speciale: verrai tu a prenderlo quando sarà il momento? Io non potrò aiutarlo come ho fatto con te. Prometti... ti prego. ”
In quell’istante iniziò a nevicare. Alcuni coriandoli di brina presero a volteggiare allegramente intorno alla sua testa, come agitati da un frullo di ali invisibili. Ilvia si portò le mani al viso, l’una contro l’altra, per riscaldarle soffiandoci in mezzo.
“Promesso”.
(ho pubblicato questo racconto con lo pseudonimo Elvio Bongorino. Spero che vi sia piaciuto)