IL POSTO
Il posto era poco oltre il binaro della ferrovia.
Ora non c’è più.
O meglio, c’è ancora, ma è coperto dall’asfalto della statale 58 quater, e non è più lo stesso.
Anzi, non è più nemmeno un posto.
Me ne dispiace, ma non mi sono arrabbiato con gli operai che hanno costruito la strada.
Loro certo non sapevano di star distruggendo il mio posto, altrimenti la strada l’avrebbero fatta passare da un’altra parte.
Quando c’era, il mio posto era facile da raggiungere. Un quarto d’ora di passo spedito dal centro del paese, un po’ più da casa mia, che abito un po’ fuori.
Bisognava attraversare le rotaie e scendere nel campo d’avena del “fosso lungo”. Dopo pochi minuti c’era una quercia solitaria enorme, ricordo forse di qualche antico confine, e lì occorreva svoltare a destra. Ancora duecento passi, ed eri arrivato.
Una piccolissima valletta, chiusa verso nord da un sasso bianco alto parecchio, senza su nemmeno un filo d’erba: sembrava il ciottolo scagliato fin lì dalla fionda di un gigante.
Intorno sterpi e ortiche; il mio posto non era coltivabile, troppo diseguale.
Ti fermavi li, sotto il sasso bianco, e ci trovavi il mio sedile. L’avevo costruito io, con delle pietre trovate lì intorno. Forse un po’ duro, ma io che allora pesavo poco ci stavo comodissimo.
La specialità del mio posto consisteva in questo: per quanto girassi lo sguardo intorno, non vedevi una casa, un pagliaio, un pilone della luce, un qualsiasi manufatto umano.
E dell’uomo nemmeno nessun rumore: né voce, né clacson, né l’abbaiare di un cane.
Anche il treno, quelle rare volte che passava, lo sentivi solo se il vento spirava da quella parte. E il fischio… fortunatamente in quel tratto non fischiava mai.
Era davvero uno splendido posto.
Ci andavo qualche volta; ogni volta che potevo. Ci portavo i miei sogni, le mie speranze, le mie angosce, le mie delusioni. Soprattutto quelle.
Credo che da ragazzo vivevo più che altro di delusioni: per le cose che speravo fossero fatte in un modo e si rivelavano, quasi invariabilmente, di natura decisamente contrastante. Delusione per i miei sogni spezzati, e dolore. Li portavo al mio posto e mi ci avvolgevo intorno, e mi ci arrovellavo.
Zitto, immobile, stringendo i denti e tremando.
In casa mi avevano insegnato che un uomo non piange, ed io volevo essere un uomo. Tremante, disperato magari, ma con gli occhi asciutti. Che non mi vedesse nessuno.
Ma quando me la trovai davanti, improvvisamente, non sobbalzai nemmeno. Forse lo sapevo, che prima o poi lei sarebbe stata lì. Seduta di fronte a me, praticamente sul nulla, visto che non avevo mai costruito un altro sedile di pietre, aspettava che io mi accorgessi di lei, per parlare… o che io parlassi:
«Sei la mia anima».
«Si.»
«E vuoi qualcosa da me».
«No.»
«Tu sai tutto di me, anche i miei segreti!…»
«Si.»… Dio!, quanto mi vergognavo!…
«E vuoi dirmi quanto ho sbagliato… quanto “sono” sbagliato…”
«No.»
«I miei peccati… ecco, sei venuta per quelli!»
«Quelli…sarebbe meglio che tu non li commettessi, ma come per tutti, è praticamente impossibile…No, non mi sono mostrata per quelli…, non per rimproverarti.»
«Devo morire…forse quando torno, il treno passa e mi mette sotto… o trovo la vipera…»
«No, non stai per morire, e nessuno ti ammazzerà, e non sei pronto nemmeno per il suicidio…no,
niente di così definitivo!…»
Mi sembrò giusto rimanere zitto, o forse desideravo pensare. Ma la mente è vuota, ed assolutamente non genera niente.
«E allora… perché sei venuta?… perché stai qui zitta?… che vuoi che ti dica?…»
«Nulla. Non occorre tu dica nulla, perché io sono qui, sono sempre con te… Solo che ora occorreva, ora è giusto per te, sapere per certo che io ci sono. E sto dentro di te…. Null’altro».
E’ andata via. Pian piano è diventata evanescente, trasparente, ed è scomparsa.
La mia anima.
Non l’ho più vista, e devo dire che spesso mi è mancata.
Ed è passato tanto tempo, ed il posto, il mio posto non c’è più. O forse c’è ancora, ma è irriconoscibile.
Forse anche lei c’è ancora, forse mi farebbe bene vederla ancora qualche volta, e parlarle, e rassicurarmi, ma temo che se pure trovassi un altro posto, dove lei potesse mostrarsi, chissà, chissà se la riconoscerei.
Lucio Musto 20 febbraio 2005-02 parole 712
Il posto era poco oltre il binaro della ferrovia.
Ora non c’è più.
O meglio, c’è ancora, ma è coperto dall’asfalto della statale 58 quater, e non è più lo stesso.
Anzi, non è più nemmeno un posto.
Me ne dispiace, ma non mi sono arrabbiato con gli operai che hanno costruito la strada.
Loro certo non sapevano di star distruggendo il mio posto, altrimenti la strada l’avrebbero fatta passare da un’altra parte.
Quando c’era, il mio posto era facile da raggiungere. Un quarto d’ora di passo spedito dal centro del paese, un po’ più da casa mia, che abito un po’ fuori.
Bisognava attraversare le rotaie e scendere nel campo d’avena del “fosso lungo”. Dopo pochi minuti c’era una quercia solitaria enorme, ricordo forse di qualche antico confine, e lì occorreva svoltare a destra. Ancora duecento passi, ed eri arrivato.
Una piccolissima valletta, chiusa verso nord da un sasso bianco alto parecchio, senza su nemmeno un filo d’erba: sembrava il ciottolo scagliato fin lì dalla fionda di un gigante.
Intorno sterpi e ortiche; il mio posto non era coltivabile, troppo diseguale.
Ti fermavi li, sotto il sasso bianco, e ci trovavi il mio sedile. L’avevo costruito io, con delle pietre trovate lì intorno. Forse un po’ duro, ma io che allora pesavo poco ci stavo comodissimo.
La specialità del mio posto consisteva in questo: per quanto girassi lo sguardo intorno, non vedevi una casa, un pagliaio, un pilone della luce, un qualsiasi manufatto umano.
E dell’uomo nemmeno nessun rumore: né voce, né clacson, né l’abbaiare di un cane.
Anche il treno, quelle rare volte che passava, lo sentivi solo se il vento spirava da quella parte. E il fischio… fortunatamente in quel tratto non fischiava mai.
Era davvero uno splendido posto.
Ci andavo qualche volta; ogni volta che potevo. Ci portavo i miei sogni, le mie speranze, le mie angosce, le mie delusioni. Soprattutto quelle.
Credo che da ragazzo vivevo più che altro di delusioni: per le cose che speravo fossero fatte in un modo e si rivelavano, quasi invariabilmente, di natura decisamente contrastante. Delusione per i miei sogni spezzati, e dolore. Li portavo al mio posto e mi ci avvolgevo intorno, e mi ci arrovellavo.
Zitto, immobile, stringendo i denti e tremando.
In casa mi avevano insegnato che un uomo non piange, ed io volevo essere un uomo. Tremante, disperato magari, ma con gli occhi asciutti. Che non mi vedesse nessuno.
Ma quando me la trovai davanti, improvvisamente, non sobbalzai nemmeno. Forse lo sapevo, che prima o poi lei sarebbe stata lì. Seduta di fronte a me, praticamente sul nulla, visto che non avevo mai costruito un altro sedile di pietre, aspettava che io mi accorgessi di lei, per parlare… o che io parlassi:
«Sei la mia anima».
«Si.»
«E vuoi qualcosa da me».
«No.»
«Tu sai tutto di me, anche i miei segreti!…»
«Si.»… Dio!, quanto mi vergognavo!…
«E vuoi dirmi quanto ho sbagliato… quanto “sono” sbagliato…”
«No.»
«I miei peccati… ecco, sei venuta per quelli!»
«Quelli…sarebbe meglio che tu non li commettessi, ma come per tutti, è praticamente impossibile…No, non mi sono mostrata per quelli…, non per rimproverarti.»
«Devo morire…forse quando torno, il treno passa e mi mette sotto… o trovo la vipera…»
«No, non stai per morire, e nessuno ti ammazzerà, e non sei pronto nemmeno per il suicidio…no,
niente di così definitivo!…»
Mi sembrò giusto rimanere zitto, o forse desideravo pensare. Ma la mente è vuota, ed assolutamente non genera niente.
«E allora… perché sei venuta?… perché stai qui zitta?… che vuoi che ti dica?…»
«Nulla. Non occorre tu dica nulla, perché io sono qui, sono sempre con te… Solo che ora occorreva, ora è giusto per te, sapere per certo che io ci sono. E sto dentro di te…. Null’altro».
E’ andata via. Pian piano è diventata evanescente, trasparente, ed è scomparsa.
La mia anima.
Non l’ho più vista, e devo dire che spesso mi è mancata.
Ed è passato tanto tempo, ed il posto, il mio posto non c’è più. O forse c’è ancora, ma è irriconoscibile.
Forse anche lei c’è ancora, forse mi farebbe bene vederla ancora qualche volta, e parlarle, e rassicurarmi, ma temo che se pure trovassi un altro posto, dove lei potesse mostrarsi, chissà, chissà se la riconoscerei.
Lucio Musto 20 febbraio 2005-02 parole 712