LA CASA DEL PADRE
O casa solitaria, così gelida nelle tue stanze, così calda di affetti e di
ricordi! Casa che fosti un nido e rifugio nei tempi tristi e lontani, ma
sempre presenti alla memoria, tempi dei bombardamenti e della carestia.
Casa ora silenzionsa, ma risonante un tempo di giochi e di risa e
festosamente traboccante d’amore conuigale e di calore domestico, oasi
di pace, angolo di paradiso immerso nel verde, quasi nascosto al paese
dall’intrico dei rami dei meli, posto ai margini del bosco, ai confini
della valle dei larici! (chi non vi è cresciuto non può capire). Di nuovo
sei rifugio alla mia stanchezza e alla desolta ricerca di affetti che non
trovo in chi mi vive accanto, ma che vivono in chi è morto.
Generazioni di morti, cari miei morti, sempre presenti nell’anima; la
vostra voce, i vostri passi credo di udire talvolta al piano di sopra. Mamma
che rifà i letti, odo aprire una porta e rivedo la nonna entrare al
ritorno dalla stalla; o avverto papà che scende le scale con la legna per
il fuoco acceso.
Ancora la fiamma ha lo stesso sbuffo d’una piccola locomotiva,
intiepidisce l’aria, che si fa pregna di profumi di resina e di profumi di
ricordi; le scarpe chiodate messe ad asciugare per la scuola dell’indomani,
i panni raccolti dal filo sul prato, induriti e rigidi di gelo, ora
come allora sgocciolano con il loro perpetuo sfrigolio sul piano della
cucina economica.
Ancora ritrovo oggetti che accompagnarono la mia infanzia e quella
dei miei fratelli: l’orologio a cucù, che ormai mostra come te e come
me i segni dell’età ed è diventato rifugio di ragni e di vespe, la foto a
grandezza naturale della sorellina defunta, la cui morte segnò e incupì
per sempre il carattere della mamma che da bambina mai vidi sorridere,
la minuscola culla di legno dalle linghissime gambe che ci accolse neonati,
la credenza tarlata che il Toio da Palù fabbricò, le tazzine delicate,
dono di nozze che non si dovevano usare se non per ospiti importanti
(per tutti gli altri c’erano le scodelline di terraglia).
E c’era sempre dietro nascosto qualcosa di buono: la cioccolata fondente
o i dolcetti introvabili a chiunque non fosse papà nostro. E la
madia sempre piena di farina, grazie ai suoi faticosi, disumani viaggi a
12
piedi trascinando un carretto per procurarsi il necessario e, sempre, anche
qualcosa di più, allorché, dopo giorni di cammino rientrando stravolto
dalla fatica esclamava “Era pesante, ma lo fosse stato di più!”.
E la tavola per la pasta col suo mattarello, ove la mamma impastava
con quella farina il bel pane candido e croccante, il solo che fosse commestibile
a quel tempo. E l’enorme caldaia del bucato, ove la cenere
bolliva nell’acqua trasformandola in ranno, così efficace e così necessario
per il bucato mensile che, immacolato, sventolava a lungo, a seconda
delle stagioni, sul prato o in soffitta.
Di nuovo rivivo una serata di legna nella stufa, di silenzio assoluto,
di pace.
Tornare indietro, nel mondo, oh, non per ora!
Per non dimenticare, per avere sempre un occhio al futuro e al nuovo
che avanza, ma il cuore nel passato.
Sì, amo assai di più gli anni trascorsi in una tranquilla incoscienza,
sicuri e paghi all’ombra di mamma e papà, quegli anni che furono miei,
che sono diventati un bagaglio della mia vita che non posso abbandonare,
e che non voglio smarrire. Gli anni a venire mi fanno un po’ paura,
sarà l’età che avanza inesorabile con il suo carico di acciacchi e di disillusioni,
ma i sembrano incerti di affetti, così nebulosi, così poco allettanti!
Ed anche oggi è notte, ormai da sette giorni vivo qui, anzi rinasco in
una dimensione nuova e antica, come già disse un poeta.
Non toglietemi queste serate di pace e di riflessione, non inquinate
la mia serernità ritrovata con progetti angoscianti e faticosi!
Forse questo è un presagio, un preludio di morte, forse gli anni che
passano fanno ripiegare lo spirito sui ricordi, così come si ripiega il
fiore sullo stelo prima di morire.
O casa solitaria, così gelida nelle tue stanze, così calda di affetti e di
ricordi! Casa che fosti un nido e rifugio nei tempi tristi e lontani, ma
sempre presenti alla memoria, tempi dei bombardamenti e della carestia.
Casa ora silenzionsa, ma risonante un tempo di giochi e di risa e
festosamente traboccante d’amore conuigale e di calore domestico, oasi
di pace, angolo di paradiso immerso nel verde, quasi nascosto al paese
dall’intrico dei rami dei meli, posto ai margini del bosco, ai confini
della valle dei larici! (chi non vi è cresciuto non può capire). Di nuovo
sei rifugio alla mia stanchezza e alla desolta ricerca di affetti che non
trovo in chi mi vive accanto, ma che vivono in chi è morto.
Generazioni di morti, cari miei morti, sempre presenti nell’anima; la
vostra voce, i vostri passi credo di udire talvolta al piano di sopra. Mamma
che rifà i letti, odo aprire una porta e rivedo la nonna entrare al
ritorno dalla stalla; o avverto papà che scende le scale con la legna per
il fuoco acceso.
Ancora la fiamma ha lo stesso sbuffo d’una piccola locomotiva,
intiepidisce l’aria, che si fa pregna di profumi di resina e di profumi di
ricordi; le scarpe chiodate messe ad asciugare per la scuola dell’indomani,
i panni raccolti dal filo sul prato, induriti e rigidi di gelo, ora
come allora sgocciolano con il loro perpetuo sfrigolio sul piano della
cucina economica.
Ancora ritrovo oggetti che accompagnarono la mia infanzia e quella
dei miei fratelli: l’orologio a cucù, che ormai mostra come te e come
me i segni dell’età ed è diventato rifugio di ragni e di vespe, la foto a
grandezza naturale della sorellina defunta, la cui morte segnò e incupì
per sempre il carattere della mamma che da bambina mai vidi sorridere,
la minuscola culla di legno dalle linghissime gambe che ci accolse neonati,
la credenza tarlata che il Toio da Palù fabbricò, le tazzine delicate,
dono di nozze che non si dovevano usare se non per ospiti importanti
(per tutti gli altri c’erano le scodelline di terraglia).
E c’era sempre dietro nascosto qualcosa di buono: la cioccolata fondente
o i dolcetti introvabili a chiunque non fosse papà nostro. E la
madia sempre piena di farina, grazie ai suoi faticosi, disumani viaggi a
12
piedi trascinando un carretto per procurarsi il necessario e, sempre, anche
qualcosa di più, allorché, dopo giorni di cammino rientrando stravolto
dalla fatica esclamava “Era pesante, ma lo fosse stato di più!”.
E la tavola per la pasta col suo mattarello, ove la mamma impastava
con quella farina il bel pane candido e croccante, il solo che fosse commestibile
a quel tempo. E l’enorme caldaia del bucato, ove la cenere
bolliva nell’acqua trasformandola in ranno, così efficace e così necessario
per il bucato mensile che, immacolato, sventolava a lungo, a seconda
delle stagioni, sul prato o in soffitta.
Di nuovo rivivo una serata di legna nella stufa, di silenzio assoluto,
di pace.
Tornare indietro, nel mondo, oh, non per ora!
Per non dimenticare, per avere sempre un occhio al futuro e al nuovo
che avanza, ma il cuore nel passato.
Sì, amo assai di più gli anni trascorsi in una tranquilla incoscienza,
sicuri e paghi all’ombra di mamma e papà, quegli anni che furono miei,
che sono diventati un bagaglio della mia vita che non posso abbandonare,
e che non voglio smarrire. Gli anni a venire mi fanno un po’ paura,
sarà l’età che avanza inesorabile con il suo carico di acciacchi e di disillusioni,
ma i sembrano incerti di affetti, così nebulosi, così poco allettanti!
Ed anche oggi è notte, ormai da sette giorni vivo qui, anzi rinasco in
una dimensione nuova e antica, come già disse un poeta.
Non toglietemi queste serate di pace e di riflessione, non inquinate
la mia serernità ritrovata con progetti angoscianti e faticosi!
Forse questo è un presagio, un preludio di morte, forse gli anni che
passano fanno ripiegare lo spirito sui ricordi, così come si ripiega il
fiore sullo stelo prima di morire.