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Il porno della tortura

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xmanx
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Viandante Ad Honorem
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Vedendo "12 anni schiavo", pubblico e addetti ai lavori sono rimasti commossi e colpiti dal brutale realismo con cui il regista britannico Steve McQueen rende sullo schermo le sofferenze della vita in schiavitù.

12 anni schiavo racconta la storia in catene di Solomon Northup: un uomo libero che nel 1841 si guadagnava da vivere suonando il violino a Saratoga, New York. Rapito con l'inganno a Washington - gli avevano promesso un lavoro da musicista in un circo - viene venduto in Lousiana.

Il film mostra fatiche, torture, umiliazioni raccontate da un uomo che ha conosciuto la libertà e ostinatamente la rivuole.
Si assiste a un prolungato tentativo di impiccagione, mentre le punte dei piedi di Solomon Northup toccano appena il suolo. Intorno, i bianchi della piantagione e il resto della servitù nera sbrigano tranquilli le loro faccende. La macchina da presa resta fissa, implacabile.

Uno dei membri del New York Film Critics Circle si è rumorosamente dissociato dagli applausi della critica favorevole. Nella recensione aveva lanciato accuse pesanti come "torture porn", paragonando 12 anni schiavo ai peggiori film splatter. Anche alcune recensioni favorevoli usano frasi come "educational horror show" e "slavery porn".

Ora, il punto è: è davvero necessario mostrare la crudeltà estrema per veicolare un messaggio?

Mah. Per come la vedo io l'suo crudo delle immagini ha la funzione di aprire alla consapevolezza. Molti pensano che la schiavitù, in tutte le sue forme, è, in fondo, una passeggiata.
E' solo la crudezza della realtà che fa aprire gli occhi.

Dovremmo far vedere le condizioni in cui lavorano uomini, donne e bambini nelle "nuove fabbriche lager". Finchè uno non lo vede coi propri occhi, la consapevolezza interiore non matura.
A leggere le cose sui libri si finisce per credere che, in fondo, vivere in una fabbrica lager quasi quasi è pure bello.

Però, c'è un però. Le immagini di per sè non aprono alla consapevolezza. Qualcuno potrebbe pensare: "in fondo quella è la realtà, che ci posso fare io?".
Oppure, peggio ancora: "ben gli sta, è quello che si meritava".

In Jango di Tarantino, mi ha colpito la lotta "casalinga" tra due schiavi. Un po' come si faceva con le lotte con i cani.
Dobbiamo renderci conto che esiste una umanità per cui tutto questo "è lecito"...o "inevitabile". Se non addirittura piacevole e ricreativo.
E anche se gli mostri la cruda realtà non farà altro che dire: "embè? questa è la realtà".

Peccato che si faccia finta di ignorare che la realtà è quella che noi vogliamo (direttamente o indirettamente). E la neutralità o l'indifferenza non sono altro che forme di sostegno mascherate.
E quello che noi vogliamo, descrive esattamente quello che noi siamo.

Non rigettare qualunque forma di schiavitù, significa che, in fondo, siamo schiavisti. E anche se non teniamo in mano materialmente la frusta, dietro a quella frusta ci siamo anche noi.

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