L' aborto volontario sembra essere un'esperienza sempre destrutturante per la psiche femminile. La ragione sta nel fatto che esso rappresenta un contatto estremamente ravvicinato con la morte.
La psiche, di fronte al pensiero della morte, si destruttura, perché istintivamente l'uomo se ne difende e si ribella alla sua ineluttabilità. Procurare la morte di un altro essere è a sua volta un'esperienza drammatica difficilmente sostenibile. La donna che sente in sé il compiersi di un evento mortale contro il frutto del concepimento, vi partecipa sia inconsciamente sia consapevolmente e il trauma che ne riceve lascia segni incancellabili.Per tutte queste ragioni la donna può andare incontro ad una sorta di "sindrome del boia".
Una sindrome è un insieme di segni in collegamento fra loro e sufficientemente costanti da formare un Gestalt coerente e riconoscibile. Sarebbe corretto distinguere "segno" da "sintomo". Il segno sarebbe la manifestazione esterna, per cosi dire oggettiva, che l'osservatore e quindi il clinico può vedere direttamente; mentre il sintomo sarebbe la sensazione soggettiva.
La sindrome del boia colpisce chi ha il compito di eseguire le condanne a morte, ovvero il "boia", è talmente disturbato psichicamente dall'obbligo di compiere un dovere che ripugna alla natura umana, che se ne difende con reazioni che in particolare si esprimono in patologie paranoidi. Proprio una componente paranoide è quella che si riscontra nelle donne che hanno voluto abortire: per negare l'omicidio che hanno commesso e la vicinanza cosi immediata con la morte di un altro, mettono in atto un meccanismo di difesa che è molto simile a quello di chi, per ufficio, è stato delegato, in questa o quella realtà sociale, ad eseguire le sentenze di morte emanate dai tribunali. Angoscia ancora più tragica in chi, come la donna, sa bene che la vita che sopprime è quella di un innocente.
Condividete quasta interpretazione? Trovate altre possibili ragioni di disagio legate all'aborto?
Tenendo presente le conseguenze psicologiche che esso provoca, e tenendo da parte le convinzioni morali, ritenete che sia ragionevole praticarlo?
La psiche, di fronte al pensiero della morte, si destruttura, perché istintivamente l'uomo se ne difende e si ribella alla sua ineluttabilità. Procurare la morte di un altro essere è a sua volta un'esperienza drammatica difficilmente sostenibile. La donna che sente in sé il compiersi di un evento mortale contro il frutto del concepimento, vi partecipa sia inconsciamente sia consapevolmente e il trauma che ne riceve lascia segni incancellabili.Per tutte queste ragioni la donna può andare incontro ad una sorta di "sindrome del boia".
Una sindrome è un insieme di segni in collegamento fra loro e sufficientemente costanti da formare un Gestalt coerente e riconoscibile. Sarebbe corretto distinguere "segno" da "sintomo". Il segno sarebbe la manifestazione esterna, per cosi dire oggettiva, che l'osservatore e quindi il clinico può vedere direttamente; mentre il sintomo sarebbe la sensazione soggettiva.
La sindrome del boia colpisce chi ha il compito di eseguire le condanne a morte, ovvero il "boia", è talmente disturbato psichicamente dall'obbligo di compiere un dovere che ripugna alla natura umana, che se ne difende con reazioni che in particolare si esprimono in patologie paranoidi. Proprio una componente paranoide è quella che si riscontra nelle donne che hanno voluto abortire: per negare l'omicidio che hanno commesso e la vicinanza cosi immediata con la morte di un altro, mettono in atto un meccanismo di difesa che è molto simile a quello di chi, per ufficio, è stato delegato, in questa o quella realtà sociale, ad eseguire le sentenze di morte emanate dai tribunali. Angoscia ancora più tragica in chi, come la donna, sa bene che la vita che sopprime è quella di un innocente.
Condividete quasta interpretazione? Trovate altre possibili ragioni di disagio legate all'aborto?
Tenendo presente le conseguenze psicologiche che esso provoca, e tenendo da parte le convinzioni morali, ritenete che sia ragionevole praticarlo?