Raccontino a tema "caldo infernale" dove con la scusa del tema si narra come nacque la cecina o torta di ceci (sembra); scritto in un altro forum da un mio "fraterno amico"
La cecìna
1284 agosto 6, San Sisto patrono di Pisa.
E' pomeriggio, il caldo è soffocante, l’orizzonte un velo tremulo, l'armatura un forno, il sudore cola lungo il corpo, bagna uomini e tuniche.
Paura e odio seccano la gola e appiccicano le mani.
Il mare è calmissimo, piatto e luccicante.
Dall'alba Oberto Doria è li, davanti a Porto Pisano, le galee schierate alle secche della Meloria, in sfida ai pisani.
Gli uomini adesso stanno in silenzio, gli occhi sbarrati all'avvicinarsi della battaglia, qualcuno prega.
Puzzo di sudore, di cuoio conciato e di grasso delle armature,
C'è solo il battere dei remi, pesante e ritmato.
Sono lontani i lung'arni pieni di grida e di bandiere, lontane le campane a distesa, lontano l'arcivescovo Ruggieri benedicente legni, armi e guerrieri.
Non importa se la croce è caduta in acqua, segno di sventura: "Sia pure Christo coi genovesi, ma che nostro sia il vento!".
Invece niente vento e Cristo è coi genovesi.
Le nostre galee sono più vecchie e pesanti, ma, sembra, più numerose. Il Morosini non sa delle 30 dello Zaccaria, lasciate di riserva nascoste chissà dove.
E ordina l'attacco.
Calzo l'elmo, aumenta il ritmo delle palate e quello dei nostri respiri.
Andiamo a speronare le galee di SanGiorgio.
Ora siamo a tiro dei balestrieri e delle macchine da lancio.
Arrivano pietre, dardi, palle di fuocogreco e bestemmie.
E' il momento, è l'impatto, speroniamo, con grande fragore di legni spezzati e fasciame che salta, speroniamo.
Ci lanciamo all'arrembaggio, finalmente urlando, più per paura che per impaurire.
Il caldo è infernale, il sudore che cola sugli occhi e le strette fessure dell'elmo mi limitano la visuale ma mi precipito sul ponte nemico brandendo la mazza.
Il ponte è reso scivoloso con olio o sapone e subito cado, rovinosamente, finisco in mezzo ai nemici, mi rialzo goffamente nell’armatura troppo pesante, l'armamento dei genovesi è più leggero, si muovono meglio.
Subito intorno a me feriti urlanti, chi cade in acqua è finito a colpi di remo.
Rumore di asce, di spade e fumo e poi fiamme, ovunque cadaveri.
Marinai tra i più valenti del mondo combattono ferocemente per ore, carichi di odio e di orgoglio sotto un sole ancora alto che sembra fermo e arroventa le armature, in un tempo fuori del tempo.
Méno mazzate per uccidere e non essere ucciso, ma caldo e fatica mi schiacciano, mi muovo sempre più lentamente, la mazza ormai si è spezzata, la spada si è fatta pesante, poi … buio.
Mi sveglio che è sera, incatenato ai remi della mia galea, bruciacchiata ma ancora a galla.
La battaglia è finita, è persa; mi raccontano che all’imbrunire lo Zaccaria è apparso con le sue 30 galee fresche a determinarne l'esito. Stiamo remando verso Genova, decine di galee, migliaia di prigionieri.
Che altro può succedere? Potrebbe piovere (vabbè oh!) e infatti si scatena una burrasca, breve e violenta.
Il giorno dopo è ancora caldo, io sono uno scribacchino, poco avvezzo alla voga, il sole picchia sulla galea, sembra che anche l'aria possa prendere fuoco, mi fa male la testa, ho ferite per tutto il corpo, ho sete e fame.
Ci danno da mangiare, in una scodella, una poltiglia di farina di ceci mista ad olio e acqua di mare. Si è formata durante la burrasca, quando alcuni barilotti d'olio e dei sacchi di farina di ceci si sono rovesciati mischiandosi all'acqua salata. Una schifezza, abbandono la scodella sul banco, ma ho troppa fame, la riprendo ore dopo, l’esposizione al sole l’ha trasformata in una specie di bassa torta di ceci, un pò meglio della poltiglia di qualche ora prima.
Dopo alcuni giorni arriviamo a Genova, stremati, la folla acclama i vincitorie e insulta i vinti.
Scendiamo ad uno ad uno: Alessandro di Baccio da Fauglia marinaio, Nino di Pietro da Pisa mugnaio, Gualtiero di Ranieri da Ghezzano marinaio, Mariano di Bartolomeo delle Brache messere, scendo anch'io, Rustichello di Bindo da Pisa scrittore e contastorie.
La cecìna
1284 agosto 6, San Sisto patrono di Pisa.
E' pomeriggio, il caldo è soffocante, l’orizzonte un velo tremulo, l'armatura un forno, il sudore cola lungo il corpo, bagna uomini e tuniche.
Paura e odio seccano la gola e appiccicano le mani.
Il mare è calmissimo, piatto e luccicante.
Dall'alba Oberto Doria è li, davanti a Porto Pisano, le galee schierate alle secche della Meloria, in sfida ai pisani.
Gli uomini adesso stanno in silenzio, gli occhi sbarrati all'avvicinarsi della battaglia, qualcuno prega.
Puzzo di sudore, di cuoio conciato e di grasso delle armature,
C'è solo il battere dei remi, pesante e ritmato.
Sono lontani i lung'arni pieni di grida e di bandiere, lontane le campane a distesa, lontano l'arcivescovo Ruggieri benedicente legni, armi e guerrieri.
Non importa se la croce è caduta in acqua, segno di sventura: "Sia pure Christo coi genovesi, ma che nostro sia il vento!".
Invece niente vento e Cristo è coi genovesi.
Le nostre galee sono più vecchie e pesanti, ma, sembra, più numerose. Il Morosini non sa delle 30 dello Zaccaria, lasciate di riserva nascoste chissà dove.
E ordina l'attacco.
Calzo l'elmo, aumenta il ritmo delle palate e quello dei nostri respiri.
Andiamo a speronare le galee di SanGiorgio.
Ora siamo a tiro dei balestrieri e delle macchine da lancio.
Arrivano pietre, dardi, palle di fuocogreco e bestemmie.
E' il momento, è l'impatto, speroniamo, con grande fragore di legni spezzati e fasciame che salta, speroniamo.
Ci lanciamo all'arrembaggio, finalmente urlando, più per paura che per impaurire.
Il caldo è infernale, il sudore che cola sugli occhi e le strette fessure dell'elmo mi limitano la visuale ma mi precipito sul ponte nemico brandendo la mazza.
Il ponte è reso scivoloso con olio o sapone e subito cado, rovinosamente, finisco in mezzo ai nemici, mi rialzo goffamente nell’armatura troppo pesante, l'armamento dei genovesi è più leggero, si muovono meglio.
Subito intorno a me feriti urlanti, chi cade in acqua è finito a colpi di remo.
Rumore di asce, di spade e fumo e poi fiamme, ovunque cadaveri.
Marinai tra i più valenti del mondo combattono ferocemente per ore, carichi di odio e di orgoglio sotto un sole ancora alto che sembra fermo e arroventa le armature, in un tempo fuori del tempo.
Méno mazzate per uccidere e non essere ucciso, ma caldo e fatica mi schiacciano, mi muovo sempre più lentamente, la mazza ormai si è spezzata, la spada si è fatta pesante, poi … buio.
Mi sveglio che è sera, incatenato ai remi della mia galea, bruciacchiata ma ancora a galla.
La battaglia è finita, è persa; mi raccontano che all’imbrunire lo Zaccaria è apparso con le sue 30 galee fresche a determinarne l'esito. Stiamo remando verso Genova, decine di galee, migliaia di prigionieri.
Che altro può succedere? Potrebbe piovere (vabbè oh!) e infatti si scatena una burrasca, breve e violenta.
Il giorno dopo è ancora caldo, io sono uno scribacchino, poco avvezzo alla voga, il sole picchia sulla galea, sembra che anche l'aria possa prendere fuoco, mi fa male la testa, ho ferite per tutto il corpo, ho sete e fame.
Ci danno da mangiare, in una scodella, una poltiglia di farina di ceci mista ad olio e acqua di mare. Si è formata durante la burrasca, quando alcuni barilotti d'olio e dei sacchi di farina di ceci si sono rovesciati mischiandosi all'acqua salata. Una schifezza, abbandono la scodella sul banco, ma ho troppa fame, la riprendo ore dopo, l’esposizione al sole l’ha trasformata in una specie di bassa torta di ceci, un pò meglio della poltiglia di qualche ora prima.
Dopo alcuni giorni arriviamo a Genova, stremati, la folla acclama i vincitorie e insulta i vinti.
Scendiamo ad uno ad uno: Alessandro di Baccio da Fauglia marinaio, Nino di Pietro da Pisa mugnaio, Gualtiero di Ranieri da Ghezzano marinaio, Mariano di Bartolomeo delle Brache messere, scendo anch'io, Rustichello di Bindo da Pisa scrittore e contastorie.