Rupa Lauste ha scritto:Nextlife scusami se intervengo soltanto ora. peró meglio tardi che mai
Ma figurati…
Sei cortese, ma sappiamo entrambi che vi sono diversi fattori che influenzano modalità e tempistiche di intervento ed infatti: sto rispondendo con un discreto ritardo.
Rupa Lauste ha scritto:
oddio non so se stiamo convergendo verso lo stesso punto. Sí le premesse sono quelle ma poi le mie domande restano.
Se smettiamo di porre il terapeuta su un piedistallo e lo vediamo per quello che in fondo é, un professionista come tutti gli altri, chi si assume la responsabilitá di una mancata prestazione professionale? Se dopo 5 anni poco é stato risolto a chi va la responsabilitá?
Nelle condizioni socio-economiche-culturali di cui parlavo si é soliti ragionare in questi termini
responsabilitá=rimunerazione per questo ci sono i manager i ceo che guadagnano soldi in quantitá spropositate.
se la responsabilitá é di entrambi (cliente-terapeuta) a chi va la rimunerazione?
Eh però, questo è un quesito insidioso e forse quello sul quale conviene meno soffermarsi poiché contiene aspetti difficilmente riducibili ed incertezze in qualche modo presenti nel panorama sanitario.
Inoltre, voglio dire: stiamo parlando di psicoterapia; laddove la partecipazione – attiva – la volontà di pervenire al mutamento, è una risorsa indispensabile e difficilmente pianificabile nella sua articolazione.
Tu puoi prendere un determinato problema/disturbo, approcciarlo con la tecnica psicoterapeutica che i dati rivelano essere la più efficace; puoi prendere il professionista che può vantare la più ampia casistica positiva ed avrai ugualmente delle incognite sull’esito finale; è nell’ordine delle cose ed è, in verità, un aspetto sul quale l’individuo dovrebbe già pervenire autonomamente in termini di riflessioni, di aspettative, senza che ciò dispensi il professionista dal fornire le giuste informazioni, coordinate.
Accade poi, che vi sono proposte terapeutiche che sono particolarmente attente a determinati aspetti e lo sono, non a fronte di una forzata sensibilità, ma proprio per elementi strutturali riconducibili non solo all’architettura teorico-pratica che esprimono, ma anche alla considerazione di aspetti per nulla trascurabili come appunto il fatto che un trattamento psicoterapeutico ha costi esistenziali non indifferenti (lasciamo quelli economici un attimo in sospeso), che una psicoterapia che non funziona è dannosa, che vi possono essere complicazioni, esisti infausti e via discorrendo.
Se è l’aspetto terapeutico che si deve adattare al paziente – e non viceversa- ecco allora che hanno senso tutte quelle operazioni atte ad evidenziare: obiettivi - anche intermedi- magari mete comportamentali concordate, indicazioni terapeutiche precise – magari una quantificazione (sommaria) della durata della terapia e via discorrendo, nonché le possibilità di sospensione/interruzione.
A tal proposito, è il caso di ricordare (o evidenziare) questo; Mr. Cushing (X) permettendo:
«
Lo psicologo valuta ed eventualmente propone l'interruzione del rapporto terapeutico quando constata che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne trarrà dal proseguimento della cura stessa.Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare altri e più adatti interventi.»
Ovvero: l’articolo 27 del Codice Deontologico.
Ora, rispetto a quanto sopra, la psicoanalisi – per le sue caratteristiche intrinseche – è di nuovo in una condizione particolare: affatto comoda.
Prima parlavo di esiti infausti, di dannosità, di complicazioni, eh sì: sempre più manifesti, come ad esempio testimoniato dal numero crescente di azioni legali, anche
class actions ove lo strumento è diffuso (mi viene sempre in mente, in relazione a ciò, l’enorme
querelle delle «memorie represse» negli
States).
Ad ogni modo: sì, convergiamo, il passo ulteriore è quello – e noto tue resistenze in proposito – di indirizzare la critica laddove è meglio meritata.
Rupa Lauste ha scritto:
Non so se ho capito bene. vuoi dire che ció che puó mettere a rischio una terapia lunga é che in quel periodo di tempo fattori esterni possano compromettere la terapia e quindi causare la ricomparsa di problematiche?
Bene non dovrebbe una terapia rafforzare e quindi permettere di far fronte a queste problematiche? Non si basa forse la psicoanalisi sulla cura dell'individuo a partire dalle sue radici? curarlo dall'interno cercando di lenire le ferite piú profonde? non é forse il manifesto della psicoanalisi "curando le ferite profonde si fa fronte alla molteplicitá di problematiche che quotidianamente si ripresentano e che sono solo la punta di un iceberg?
E poi come potrebbe una terapia breve risolvere questo problema invece?
Il contrario.
Se il modello bio-psico-sociale è quello di riferimento, l’interazione con l’ambiente è fondamentale.
Cinque-sette anni, sono un lasso di tempo così ampio, che possono intervenire, negli individui, sostanziali e stabili modificazioni che portano alla risoluzione dei problemi/disturbi.
Ed infatti questo è un aspetto che è stato proposto poiché osservato, ed alcuni lavori, forniscono una quantificazione di tale
remissione spontanea (più riferibile in relazione alle problematiche meno severe, questo bisogna dirlo).
Sono cifre estremamente variabili, è vero, però anche nella peggiore delle ipotesi, l’importanza della riflessione rimane e quindi la questione diviene: come si verificano veramente quei parametri che abbiamo citato innumerevoli volte?
Come posso essere sicuro che il mutamento sia stato indotto dall’azione psicoterapeutica e non da altro?
L’aspetto cruciale è però contenuto nella seconda parte della tua domanda.
E se quel «profondo», il suo angolo più remoto, fosse non costituito da un
inconscio dinamico, ma da un
inconscio cognitivo?
Se certi aspetti - ancorché presenti - legati alla prima infanzia, non fossero accessibili poiché non rimossi?
Insomma: gli stessi quesiti che ho posto alla Ninfa, nel thread collegato.
Chiedi: «
in quale modo le terapie brevi….».
Prendi, ad esempio, il paradigma cognitivo-comportamentale, storicamente contrapposto a quello psicodinamico; definiamo tale «terapia» come breve, anche se con la comparsa di altre proposte di durata ben inferiore, forse dovrebbe cedere il passo; prendi il modo in cui articola il proprio intervento: potrebbe sembrare «superficiale», ma in realtà: quanto lo è veramente?
Immagina un individuo che adotti comportamenti, schemi di pensiero, strategie di solving, che si rivelino estremamente funzionali, adattivi; è portato ad acquisirli no?
Con le difficoltà del caso, certo; in un primo momento tali risorse saranno ben individuabili e attingibili dalla coscienza, ma poi? Che accade?
Tali elementi non verranno poi allocati ad un diverso livello costituendo quella
forma mentis (così ci intendiamo) attraverso la quale il soggetto si relaziona con il mondo e lo interpreta?
Quanto superficiale è, in realtà, questa allocazione?
Detto ciò: se non si è disposti – per i più svariati motivi – a mettere in discussione il paradigma psicoanalitico, non si va da nessuna parte.
Bisogna invece esercitare la critica, vi è una quantità enorme di elementi di riflessione che si incontrano assai precocemente, senza aver bisogno di attendere le neuroscienze che dicano: «
ehm... sorry: this is not possible».
Precoci quanto? Ma sin dai dialoghi interni (Adler Vs Freud?).
Strutturali quanto?
Ma dagli assunti primari e mancate validazioni; ma dal mai risolto problema metodologico sulla reale possibilità di verificare elementi del passato, inevitabilmente deformati dall’individuo e poi anche da chi li interpreta…E poi via di questo passo…
Rupa Lauste ha scritto:
Non sono pienamente d'accordo, il principio efficienza e efficacia é una distorsione dell'istinto di sopravvivenza. È un parametro inculcato in modo irragionevole da un sistema economico che si riavvolge su se stesso e che per evolversi deve autodistruggersi. ma questa é una mia semplice opinione. sí é vero che l'uomo ha sempre cercato di ottimizzare le risorse per raggiungere un certo comfort col minimo spreco di energie. ma oggi credo che l'efficienza e l'efficacia vadano avanti a discapito del comfort.
Indubbiamente vi sono – l’ho già scritto – ipoteche semantiche che sono avanzate da pretese socio-culturali, economiche,
bla, ma credo sia anche relativamente semplice emanciparsi da esse.
In questo senso, insisto: la questione è un pochino stringente poiché quei termini sono sicuramente ascrivibili – primariamente - alla vita in sé, al suo aspetto biologico.
Sono riferibili al funzionamento degli organismi, alla loro omeostasi, alla riproduzione, alla selezione naturale, all’evoluzione.
Per quanto mi riguarda, qua non vi è molto da sviscerare, ma ci siamo, mi sono soffermato su questo punto poiché mi è sembrato che queste direttrici che dovrebbero guidare l’azione venissero caricate di aspetti ulteriori, in particolare in una condizione, quella attuale, nella quale - vi tornerò tra poco- è ancora possibile mantenere una visione autentica e salubre.
Rupa Lauste ha scritto:
ora sono io che ti chiedo di sviscerare un po'
Sì e facendolo, mi riferirò anche a quest’altro passaggio:
Rupa Lauste ha scritto:
non credo sia consigliabile ragionare per "effetti collaterali". proprio perché sono effetti incontrollabili e imprevedibili. Introdurli a priori rischierebbe di inficiare ogni singola proposta.
Comprendo quello che dici, ma rilevo che non è necessario un ragionamento dicotomico; del resto: in sede di analisi, magari di pianificazione, omettere di rappresentare determinati dettagli potrebbe essere un errore.
Detto questo, l’ho affermato: non si tratterebbe necessariamente di uno scenario negativo, però rappresenterebbe una situazione un po’ viziata nella quale si proporrebbero sì, quegli aspetti che hai rilevato, legati anche ad esigenze di un certo tipo.
In altre parole: in uno scenario nel quale gli oneri dei trattamenti psicoterapeutici fossero totalmente ascritti al SSN e quindi alla collettività, quei criteri che stiamo maneggiando da alcuni post, si troverebbero inevitabilmente a dover dialogare con altri aspetti, altre valutazioni: risorse, budget, razionalizzazioni (reali o tagli simulati per esse), ingerenze, validazioni sospette, ecc.
Non si tratta esclusivamente di timori legati alla scarsa fiducia (peraltro spesso meritata) nell’azione politica, legislativa, amministrativa, ma si tratta – in questo caso – anche di osservare il pregresso, ciò che è stato compiuto anche solo in termini di classificazione della materia e dei relativi profili professionali (in proposito: la «Ossicini» è una meraviglia).
Quella attuale, invece, è ancora una condizione che ci permette di preservare l’accezione primaria di quei criteri, metterli in relazione, osservarli, valutarli, aderire ad essi, esclusivamente sotto il profilo terapeutico ed in relazione al paziente.
Se è vero che tali obiettivi dovrebbero già essere traguardi per le varie professionalità, è anche vero che è proprio questa condizione che consegna l’assenza di alibi.
Rupa Lauste ha scritto:
continua a sfuggirmi la figurazione di questo professionista super partes che "oggettivamente" dovrebbe essere in grado di consigliare e coordinare.
Ad un certo punto di questa nostra storia, costituta da contrapposizioni paradigmatiche, è inevitabile – purtroppo – introdurne anche di altro tipo, ovvero quelle esistenti tra le varie figure professionali che si occupano della psiche e relativi interessi corporativi.
Alla Psicoterapia si accede, tramite relativo percorso di specializzazione, dalla Psicologia e dalla Medicina.
Ora, la seconda – quand’anche si trattasse della Psichiatria – presenta nei confronti della prima una lacuna formativa non di poco conto.
La mancanza di un viaggio articolato all’interno dell’universo psicologico e sue correnti di pensiero, è evidente come possa anche privare di elementi concreti attraverso i quali orientare le scelte future che in questo caso sono relative a quel percorso - ed adesione al relativo paradigma - che conduce a divenire psicoterapeuta.
A mio avviso (diciamo così) dovrebbe essere relativamente semplice comprendere come la psicoterapia debba necessariamente essere collocata in quello che è il suo contesto più appropriato: quello di una specializzazione della psicologia, dalla quale non può in alcun modo prescindere.
Non vi sono molti motivi validi per opporsi a questo intendimento, eppure ci si imbatte in resistenze e in quegli interessi di cui sopra, (la «Ossicini», continua ad essere una meraviglia anche in questo senso).
La Comunità Psicologica Italiana, ha vinto un’importante battaglia in proposito, sottraendo la possibilità, per il medico, di accedere direttamente alla Psicologia Clinica (intesa come specializzazione), ma a quale prezzo? Combattendo con cosa? Quindici/venti impugnazioni di iniziative del MIUR o specifici Atenei, prima di giungere alla famigerata sentenza del Consiglio di Stato?
Questo rende un pochino l’idea di certe difficoltà che, bada, non sono ostacoli sul bisogno/necessità di crearsi il personalissimo orticello o di sgomitare per creare uno spazio che non esiste; è semplicemente il diritto di vedere riconosciuta una prerogativa esclusiva, realizzata non da qualche concessione, ma dalla formazione specifica; elemento poi prezioso anche per l’utenza.
Per rispondere poi – nel concreto – alla tua domanda: la più volte citata figura dello psicologo di base, potrebbe rispondere a tutta una serie di esigenze e farsi carico di una serie di situazioni, di certo non ultima, quella di cui stiamo discutendo.
Ecco, sulle sue caratteristiche professionali, si può costruire un dialogo, ad esempio: dovrebbe essere uno psicologo clinico? Benone, si tratta di aspetti da ponderare, ma non credo siano più rimandabili.
Rupa Lauste ha scritto:
Detto questo vorrei terminare con quello che é un dubbio piú che una considerazione.
Non é forse il problema dell'approcciarsi al mondo della psicoterapia proprio la mancaza di fiducia in questa a priori? Dove la mancanza di fiducia é figlia di preconcetti molte volte ingiustificati che riguardano la disciplina?
E non é forse questo il motivo per cui le terapie brevi non sono adatte a clienti che mostrano scarsa fiducia nei confronti della disciplina?
Questo proprio perché la brevitá non permetterebbe di educare il cliente a un certo modo di pensare che richiede comunque tempo?
Il problema principale è costituito dalla scarsa informazione relativamente a tutto il panorama di discipline - e relativi interpreti – che attiene alla psiche.
Già qua da noi, nel nostro piccolo, ne abbiamo una degna rappresentazione e non di rado capita di dover puntualizzare aspetti che registrano incognite ed errori diffusi, ad esempio – su tutti – le differenze esistenti tra: Psicologo-Psicoterapeuta-Psichiatra.
Credo poi vi sia un altro nemico da combattere: certe aspettative.
Penso vi sia un intendimento di fondo, inevitabilmente mutuato dalla medicina, che interpreta il fatto secondo il quale è un agente estraneo al nostro controllo (farmaco, tecnica strumentale/ chirurgica, bla) che ha il compito di risolvere/attenuare il nostro problema.
Trovo che questo aspetto si riproponga anche nel rapporto con lo psicoterapeuta e che a seconda del modello di intervento che esprime, esso – l’intendimento – possa trovare, almeno nella fase iniziale, corrispondenza o il suo contrario, con relativi effetti destabilizzanti.
Infatti: proporre dimensioni un pochino estranee alla consapevolezza dell’individuo (come ad esempio accade quando si parla di inconscio, di rimozione, di traumi precoci e via dicendo), in qualche modo lo rassicura sulla (percepita) professionalità del terapeuta e sulla sua necessità per interpretare quanto gli è precluso.
Negli altri casi invece, quando ci si sofferma (e si articola la strategia terapeutica) su aspetti che il paziente ritiene più intelligibili, può svilupparsi la riflessione: «
Beh, ma è tutto qua»?
«
A cose del genere potevo arrivare da solo»; «
adottare quel comportamento, è un obiettivo che posso raggiungere in autonomia, non mi serve nessun’altro».
Detto ciò: mancanza di fiducia, scetticismo, sono nemici mortali di ogni tecnica psicoterapeutica, questo per il ben comprensibile motivo che senza una profonda alleanza terapeutica, non si va da nessuna parte.
Per rispondere poi alle domande con le quali chiudi il tuo intervento: non comprendo come le terapie brevi «non siano adatte».
Anzi, il nucleo centrale di quanto stiamo dicendo da diversi interventi, ovvero la ridotta autoreferenzialità, le valutazioni in termini di controllabilità, efficienza, efficacia, l’attenzione al paziente, può appunto far molto per arginare tale scetticismo/diffidenza o per lo meno tentare di scremare i pregiudizi esistenti, ferma restando quella quota di aspetti spiacevoli (diciamo così) che ogni categoria professionale esprime.
Bisogna poi considerare che sono proprio le terapie brevi che perseguono l’obiettivo di ottenere risultati tangibili in un lasso di tempo ridotto e questo è ragionevole pensare si rapporti favorevolmente con il concetto di fiducia.
Infine, rilevo che quel: «
educare il cliente a un certo modo di pensare che richiede comunque tempo?», assomiglia parecchio ad uno degli obiettivi che appartiene ad un indirizzo psicoterapeutico che non è quello psicoanalitico e che propone – appunto - tempi ben più brevi per il trattamento.