Gentile
L’atmosfera è pressappoco quella di sempre.
Sontuosa e forse un po’ eccessiva l’eleganza della bella sala a ferro di cavallo liberty appena appena appesantita dalle aggiunte decorazioni dorate baroccheggianti fa da cornice alle superflue pellicce di mille animali diversi ostentate da signore e signorine “bene”, in voluto stridente contrasto con quelle altre signore e signorine altrettanto agiate ma sapientemente e costosamente sciatte, che cercano di promuoversi come intellettuali impegnate.
Noi uomini siamo vestiti naturalmente come si usa ora: in modo che si capisca chiaramente che nessuno di noi ha un’idea nemmeno approssimativa di cosa ci si debba mettere per un concerto, un funerale, per lo stadio o per andare in chiesa.
Acustica smorzata nei bisbigli e nei fruscii della gente che piglia posto dalle poltrone di pesante velluto rosso e dai i drappeggi e le passamanerie testimoni di epoche ormai lontane e decadute; suoni ovattati e bassi, che sembrano lontani e sono invece tutt’intorno a te. E chiacchiere inutili, incomprensibili e commenti banali: tanto per dire qualcosa, per chi non ha nulla da dire.
Aria pesante, caldo eccessivo come sempre; forse c’è un amministratore particolarmente freddoloso o cointeressato nella fornitura di gasolio. Luci abbassate, per far sembrare candele le moderne lampadine elettriche. Mascherine impeccabili nella loro divisa rossa e nera, efficienti, cerimoniose e sorridenti fino allo stucchevole.
Stasera “omaggio a Dvořák”: danze slave ed il celebre “concerto in si minore opera 104” per violoncello solista ed orchestra.
La mia vicina di poltrona è una ragazza smorta. Non giovane, non vecchia, non è bella né brutta. Scialba; e puzza un poco. Forse per lei sarà normale, ma la mescola dei suoi afrori personali e di quelli artificiali che si è schizzata addosso non è ben riuscita: e puzza. Lievemente, ma sgradevolmente.
Meno male che stasera sono in ghingheri, ed ho il fazzoletto odoroso di “Drakkar noir”. Mi lacrimano gli occhi per la congiuntivite e questa è una buona scusa per metterlo frequentemente sul naso e tenercelo, respirandovi dentro.
Aspiro l’aroma francese di Guy Laroche che m’inebria un pochino, ho le esalazioni della vicina di seggiola e quelle indistinguibili di centinaia d’altri corpi intorno e il murmure di cento sussurri ed aliti e zaffate di vita e presenza di passioni segrete e di sogni e d’angosce private… Ma è tutto l’ambiente ad essere pieno delle emozioni e sensazioni di innumerevoli generazioni di spettatori che nei secoli si sono rifugiati qui per scoprire se stessi, complici la penombra e le magie della musica; per esplorare il proprio immaginario più intimo, il proprio “se stesso” profondo e sconosciuto: quello ch’io stesso cerco, e qualche volta, forse, riesco a sfiorare.
Mi si confonde l’anima, ed un poco si smarrisce.
Comincia il concerto. Il solista è un atletico biondo giovanottone finlandese di più di due metri, ed il violoncello che tiene nelle mani mi fa subito pensare ad una fragile ballerina fra le braccia del suo massiccio cavaliere. S’è appena seduto, e segue con un leggero ondeggiare della testa l’orchestra, nelle note introduttive alla sua esecuzione. In sincronia, ondeggia anche lo strumento. Lo tiene fra le gambe, come usano fare tutti i violoncellisti, ma molto verticale, quasi ritto, e di tanto in tanto lo accosta alla guancia, come per mormorargli qualcosa per fargli qualche raccomandazione o bisbigliare una tenerezza.
Ho già in mente le parole in quella tua lettera: «un bacino sulla fronte… ed un altro sul volto. Ma poi basta, però».
Non credo che al gigante basti così, non ha ancora nemmeno suonato una nota; non mi contenterei di due soli bacini…
Inizia. Qualche tocco leggero come per saggiare le corde, ed è già concerto. Ci sa fare, il finnico. Ma io immagino te. In quella tutina rosata che ti vidi indossare una volta. Rosa la maglietta appena aderente sul seno procace, e dell’identico rosa il fuseau in leggera maglina elastica e vellutata, e le scarpe modello ballerina che parevano di seta. Rosa, ma di molto più chiara, la sciarpetta leggera a proteggerti il collo scoperto. Come il nastro per fermarti i capelli.
Va avanti, il concerto: l’ “allegro” iniziale lascia spazio all’ “adagio”… “ma non troppo”, come raccomanda lo spartito. Ed il giovane artista assorbe ogni nota filtrandola nell’anima, e la fa sua interpretandola e vivendola. Una per una le trasmette allo strumento, con le mani, con l’archetto. E la macchina di legno e di corda prende vita e risponde a tanta passione e vibra e sospira e geme sonora al tocco sapiente delle dita maestre. Ove lui tace, lei canta per lui. E sembra vivere di umana passione, ondeggiare di più alte emozioni, rispondere di suo alle sollecitazioni amorose del cantore muto, rapito dalle note, amante di “lei”, che dà voce melodiosa al suo intimo sentire. Lei, la macchina di legno, in quelle mani virtuose non è più una macchina di legno; si esibisce per noi, e canta per amare il suo maestro, padrone e tutore, ma gode di gioia sua, personale.
E sembra infatti che quella viola suoni come per incantesimo, sembra che suoni da sola. Le mani del maestro che sono su di lei, non sembrano esserci per comandarne delle specifiche note, ma per stimolarla a cantare, per darle delizia e nuove sensazioni. I riflessi mutevoli delle luci discrete sulle superfici ondulate di legno polito fanno pensare a una danza, alle movenze estatiche della ballerina perduta negli incanti della melodia, nei giochi rutilanti di consonanti complici strofe.
Le mie mani sul tuo corpo. A carezzarlo, senza forse nemmeno sfiorarlo. Seguirne pianamente ogni curva, ogni incavo ogni contorno. Sollevata la mano di un millimetro dalla superficie setosa di quel sottile tessuto rosa ed avvertire il fremito, sotto, della tua pelle che aspetta il contatto. Ansiosa, timorosa o forse vogliosa… non sa. Quella pelle, la tua pelle, che anela e che freme. E con la punta del dito indagare le forme, per impararle, farle mie, ricordarle. Il bordo dell’orecchio ed il profilo del viso, la forma del naso, il disegno delle labbra…
Ed andare a scoprire ogni piega, ogni solco, ogni pista disegnata sul corpo, seguire ogni percorso di piacere fin negli angoli più nascosti, negli atri più intimi e segreti.
Ci avviamo al finale. I toni si fanno più intensi, i suoni decisi. L’archetto è giostrato con forza, e morde le corde di pelle e di nervo che si tendono ed urlano, allentando e avversando la cassa sonora che geme e canta e piange ed esulta e gioisce in spasmodica eccitazione. Sfrega veloce l’archetto sulle corde, nel “crescendo a fortissimo”, su e giù, su e giù, sempre più in fretta, con sempre più forza. E con sempre più forza l’artista gigante stringe e tormenta fra le ginocchia il violoncello. La sua amante. E la squassa a destra e a sinistra, e l’abbraccia, l’avvolge, l’avvinghia e la stringe nell’estasi dell’armonia, mentre velocissime le dita serpeggiano sulla tastiera a bloccare le corde più in alto, più in basso, e tirarne fuori ogni nota, ogni palpito, ogni voce.
Le corde: così sensibili e tese dal “riccio”, su in cima allo strumento, al “ponticello” sul ventre panciuto, fino a fissarsi alla “cordiera”, quel pezzo così simile nella forma ad un sesso di donna ancorato giù in fondo alla cassa, davanti alla gamba sottile.
Non mi ci vuole molto a rivestire quel violoncello prosperoso di forme della tua carne e del tuo volto, fare dei suoi nervi i tuoi nervi, della sua eccitazione la tua eccitazione.
E mi viene naturale fondermi col finnico musicista e pizzicare e sollecitare io le tue corde, per sentirti fremere e vibrare e sobbalzare nelle mie braccia, e torcerti di piacere e di gioia, e pensare e sapere e credere che ispiratore ed artefice di tanto godimento sia io, per te.
Con le labbra sfiorarti i capelli e sentirvi il profumo di sole e di grano ed osservare la luce giocarvi frammezzo a tirar fuori disegni vivi di colori e di luci da ammirare e da bere, e conservare per i giorni di buio… Brividi che scorrono; si propagano dal tuo corpo al mio, dalle tue mani protese imploranti carezze alle mie vogliose di sentirti, toccarti e confondersi in te. Respirare la stessa aria, sentire lo stesso sentire, unirsi e mischiarsi, suonare d’una stessa sinfonia. Strumento e musica, materia ed intelletto, una cosa sola.
E’ solo un sogno, lo so, non sono così fuori di me; ma comunque, è un bellissimo sogno. E val la pena di ricordarlo.
Si smorza la musica, lentamente, nell’ “andante - adagio” del nuovo movimento. Mi pare di sentire che alla furia della passione subentri la pace dell’appagamento. Le note scivolano via melodiose e quasi liquide, gli strumenti accompagnatori dell’orchestra ed il solista in querulo dialogo si scambiamo strofe e refrain, e li riprendono, ci scherzano con mille variazioni. Anche il nostro violoncello sembra tornato ad una natura più usuale, ad un oggetto che emette suoni. La sua avventura nel mondo della sensualità sta passando, pian piano diventa più preciso nella forma e nella funzione. Riacquista il suo legno e si sveste della carne, del rosa, dei tuoi brividi, dei nastri. Ancora una volta mi guarda sornione e mi lancia un altro sorriso; chissà, forse un bacino sul collo… e poi basta! Appagato, e malinconico un poco.
Il violoncello lo sa: fra un istante non potrà più essere te.
Il “Gentile da Fabriano”, il teatro che ci ha ospitato stasera, lentamente riprende la sua forma, la sua atmosfera, si ricrea l’ambiente: la fantasia svanisce. C’è di nuovo il caldo, le luci, la gente che applaude.
Un po’ imbarazzato, vergognoso perfino del mio sogno segreto, cerco adesso di darmi un contegno. Sorrido come compiaciuto alla mia sempre puzzolente vicina e do uno sguardo competente ed interessato al programma della serata, alla “guida all’ascolto” («guida all’ascolto… e di che?», non mi pare di averne avuto bisogno!) ed al profilo artistico del violinista biondo.
Accidenti però!… hai capito? Il nostro amico finlandese è personalità di spicco! Ha una carriera lunga un chilometro e quanto mai prestigiosa!… concerti, incisioni, partecipazioni in mezzo mondo!… e poi, leggi, leggi… Il suo strumento, la ballerina, l’amante leggera ed appassionata, il violoncello insomma, si… proprio quello di stasera, mica è uno strumento qualunque!…
E’ nientepopodimeno che un “Carlo Giuseppe Testore - del 1698”!!!
Del milleseicentonovantotto! ha più di trecento anni!
Capito con che razza di bacucca ho fatto l’amore stasera?
Lucio Musto 1° febbraio 2004 parole 1718
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