RIFIUTI
Li chiamiamo rifiuti, dunque li consideriamo privi di valore. Paghiamo, infatti, affinché qualcuno li raccolga e li porti via da casa nostra.
Il fraintendimento è nel nome: i rifiuti sono scarti, ciò che non vogliamo.
Proviamo, per gioco, quindi con la massima serietà, a chiamarli materia prima, materia prima di seconda verginità. Ecco che, come per incanto, ci accorgiamo d’essere proprietari di questa materia prima, proprietari legittimi, avendola pagata fino all’ultimo centesimo: è indubbio che nel prezzo di una lattina d’aranciata siano compresi quello della bibita e quello della latta.
Ora, quando mai s’è visto il proprietario di un bene pagare l’acquirente?
Il padrone di una mucca da latte che non abbia i mezzi per trasformare quest’ultimo in formaggio, lo vende al caseificio. Il possessore di rifiuti, invece, fraintende il suo status. Dentro l’inganno generato dalle parole, non s’avvede che la spazzatura è una merce molto richiesta, che con essa si producono altri beni, che le aziende della raccolta la vendono al miglio offerente, il quale poi guadagna dalla vendita del prodotto trattato. Poiché il pattume è privo d’un valore d’uso immediato, esso appare al suo proprietario privo anche di ogni valore di scambio. Oh, che abbaglio!
Riserviamo il termine “rifiuto” solo per i “no, grazie” che diremo a chi offrirà troppo poco per avere la nostra preziosa immondizia.