NinfaEco ha scritto:La terapia è un percorso personale molto lungo. Questo percorso implica fatica da parte di chi lo intraprende. Nulla di ciò che compete il suo malessere è delegato ad altri. La persona ha per intero la responsabilità di se stessa. Nessuno sbocco è garantito. Il punto d'arriva, anche se era implicito nella richiesta di una terapia, appare sempre come un che di inaspettato.
Lo psicofarmaco invece è un medicinale, che per produrre effetti richiede tempo ma che si configura come la risposta immediata ad un bisogno. Laddove la terapia implica la capacità o la volontà di maturare la capacità di tollerare la frustrazione e differire l'appagamento, il farmaco costituisce l'illusione della possibilità di una risposta magica, che tutto risolva in formato pocket.
Se la sofferenza fosse sangue lo psicofarmaco sarebbe un tampone, mentre la terapia sarebbe il suo fluire. Non un fluire libero, tumultuoso, emorragico ma gestito e "controllato". Le ferite si rimarginano naturalmente proprio attraverso lo scorrere del sangue che ripulisce la lacerazione, rallenta pian piano ed infine la sigilla.
Quanto è utile quindi tamponare una ferita a prescindere da ciò che contiene? Ciò che decide l'evolversi di una lacerazione verso la cancrena o verso il suo rimarginarsi, è anche il suo contenuto.
Può curare una farmaco? Il farmaco può essere terapeuto visto e considerato che si basa sul principio della delega ad altro di ciò che è nostra responsabilità?
Io sono contraria al loro utilizzo, che invece vedo essere prassi comune, eccezion fatta per psicotici gravi che non possono contare su altre risorse. Ritengo che lo psicofarmaco non solo non risolva i problemi, ma ne crei anche se somministrato sotto controllo medico.
Ma siccome è una posizione discutibile la mia, discutiamone.
Intanto, sistemerei il titolo del
thread che sarebbe corretto divenisse: «Psicofarmaci e Psicoterapie».
Diciamo poi che la frase «la terapia è un percorso personale molto lungo» è qualcosa di opinabile, soprattutto in quanto affermazione perentoria ed univoca.
Relativamente ad essa, rilevo poi un paio di
retrogusti.
Il primo, di stampo psicoanalitico e ciò, proprio dal punto di vista psicoterapeutico, a mio parere richiede più di una cautela.
Il secondo, di carattere mistico – religioso che, francamente, epurerei di gran carriera da questo contesto.
L’affermazione (sebbene legittima in quanto riferita ad un proprio pensiero) «…lo psicofarmaco non risolva i problemi» invece non è opinabile: è scorretta, in
primis poiché generica…
Infine, la frase: «anche se somministrato sotto controllo medico» contiene un concetto un pochino nebuloso che meriterebbe più di un approfondimento.
Detto ciò, posso affermare che tra gli ambiti della conoscenza personale nei quali ho mitigato (ma solo un pochino) il mio grado di confusione ed ignoranza, difficilmente posso trovare una questione più complicata (e delicata) di quella che il
thread evoca e che, ovviamente, trascende l’aspetto specifico e chiama in causa la totalità di quella strabiliante,
impalpabile e complicatissima entità che è la psiche (e naturalmente le strutture organiche/meccanismi fisiologici che la generano).
Io, a questo punto, penso sia il caso di dire: «nonostante».
Si perché:
- nonostante io
simpatizzi maggiormente per l’approccio psicoterapeutico.
- Nonostante non mi siano oscuri i limiti dell’ortodossia biologico/organicista-determinista/riduzionista.
- Nonostante conosca le profonde contestazioni, le rivoluzioni, i mutamenti che hanno interessato la psichiatria.
- Nonostante conosca i limiti (e le profonde critiche ) degli strumenti diagnostici principali utilizzati nell’ambito dei disturbi psichici.
- Nonostante conosca gli esiti delle ricerche che hanno ridimensionato assai le pretese esclusive di alcuni approcci psicofarmacologici.
Beh, nonostante tutto ciò (ed anche altro), in coscienza non posso non considerare quanto la (psico)farmacologia sia in grado di fare, quali le possibilità che è in grado di offrire, quale il quadro integrato di intervento che si viene a delineare.
Mi sembra che al di là di interessi personali, corporativi, identitari, ecc, se si mantiene ferma la focale su ciò che davvero merita quell’attenzione: il disturbo e la sua soluzione o miglioramento, non si possa non convenire che l’approccio integrato è indispensabile, almeno potenzialmente.
Quando dico «potenzialmente» mi riferisco ad un modello che ha possibili soluzioni integrate, laddove nessun apporto viene demonizzato, tra l’altro superando ad occhi chiusi i dati empirici, quand'anche quelli scientifici.
Possibili interazioni quindi, non interazioni obbligate.
Le varie casistiche, supportate da un apporto dinamico di studi sull’efficacia terapeutica, sapranno chiamare in causa un approccio piuttosto che l’altro, la prevalenza di uno rispetto all’altro, la loro interazione sequenziale e via discorrendo.
Mi sembra che da alcuni lustri, almeno un’illuminata avanguardia di quel mondo nominalmente qualificato di specialisti che si occupano della psiche, si stia muovendo in questa direzione che è poi l’unica in grado di esprimere quell’elasticità di cui non possiamo fare a meno.
Il merito di quelle avanguardie è poi duplice poiché si può ascrivere loro il tentativo di ricomporre le profonde fratture che dividono sfere professionali che non possono (e non devono) operare contrapposte in un ambito che – in realtà- non lo permette.
Recuperare la salubrità di quel rapporto/dialogo non sarà cosa semplice visto che chiama (anche) in causa aspetti concettuali e normativi molto contorti ed infelici (basti pensare a cosa è stato prodotto – nel nostro paese - nel definire la psicoterapia); chiama in causa le pressioni corporative da neutralizzare (come quelle che hanno portato, ad esempio, il nostro legislatore (o magari era semplicemente impreparato) a consentire al medico – e non solo allo psicologo – di accedere al percorso formativo di psicoterapeuta, oppure alla vicenda che riguarda la psicologia clinica) e
bla, bla, bla.
Infine, trovo che un’importante opera di autocritica e di auto calibrazione debba essere compiuta anche in ambito psicoterapeutico, sostanzialmente partendo da tre aspetti:
- una psicoterapia che non funziona, non è una psicoterapia.
- Numerosi e poderosi sono i danni che possono essere arrecati da una psicoterapia sbagliata o anche non funzionante, se protratta nel tempo; danni che sono qualitativamente e quantitativamente superiori agli aspetti negativi di una (psico)farmacoterapia.
- Non è il disturbo psichico (e quindi il paziente) che si deve adattare agli specifici approcci psicoterapeutici, semmai il contrario..